Dicono di avere trent’anni Kiaw e Maung (nomi di fantasia) e chiedono che i loro volti non vengano mostrati. Tatmadaw, dicono, li crede morti e solo questa finzione li fa sentire al sicuro. Si mettono di spalle mentre registriamo l’intervista in una delle baracche del campo del Chin National Army dove Kiaw e Maung vivono un po’ come sospesi.

L’esercito “etnico” li ha accolti ma per ora non si fida. Fa far loro qualche lavoretto, li impiega nella logistica.

Maung, che viene dal Rakhine, dice di essere entrato nell’esercito nel 2020, prima del golpe. Nel dicembre 2021 ha disertato con un compagno ed è scappato con le armi, il che lo rende colpevole due volte. È scappato da Thantlang, una città che oramai è abitata solo dai fantasmi della guerra e dai soldati di Tatmadaw che ci vivono circondati dall’esercito Chin. «Non mi piaceva vedere come l’esercito agiva a Thantlang, non mi piaceva vedere le case della gente andare a fuoco. Stavo in un gruppo di sette soldati: veniva il comandante e ordinava di bruciare le case…».

Kiaw faceva il poliziotto. Arruolato nel 2019 si ritrova a prendere ordini dai militari: «Io volevo solo fare il poliziotto ed essere rispettato per questo, come era all’inizio: ma poi venivamo comandati dai militari e non facevamo più gli agenti… avevamo perso il rispetto della gente che ci equiparava ai green». Sembra molto confuso, impaurito, reticente, perso. Anche perché se n’è andato nell’aprile del 2023, dopo oltre due anni di golpe militare. Almeno Maung ha disertato nel dicembre del 2021, dopo dieci mesi del nuovo corso. Entrambi sono vaghi sul passato: «In caserma non avevamo connessione internet e non si poteva parlare con gli esterni». Insomma, chiediamo, non sapevate cosa stava succedendo? «No», è la risposta che sembra davvero poco credibile. L’intervista è una sofferenza reciproca. È solo facile capire che una paura profonda deve aleggiare nei loro animi.

Diversa la storia di Ko Myo, un altro poliziotto che incontriamo qualche giorno dopo in un sobborgo di Aizawl, la capitale del Mizoram indiano. È più rilassato, più collaborativo. Racconta di come è scappato, le motivazioni di una scelta meditata, la possibilità di farsi raggiungere dalla famiglia che ora vive qui con lui in una struttura privata messa a disposizione dalla popolazione locale.

Ci vivono circa otto famiglie. Sono accalcate dentro stanzette di 2 metri quadri che sono in sostanza letti a castello con pareti divisorie. Grande dignità e pulizia. Spazi comuni, qualche lembo coltivato a orto. E le figliolette che in divisa vanno a scuola ogni mattina. A piedi, faticosamente, lungo il pendio della montagna. Ma lontane dalla guerra.