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Non ci sono praterie ma una via stretta

Nel mare “politicista” in cui affoga la gran parte dei commenti di questi giorni, le parole di Romano Prodi, nell’intervista a Repubblica, offrono Alcune considerazioni politiche su cui riflettere e […]

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 24 giugno 2016

Nel mare “politicista” in cui affoga la gran parte dei commenti di questi giorni, le parole di Romano Prodi, nell’intervista a Repubblica, offrono Alcune considerazioni politiche su cui riflettere e con cui aprire una seria interlocuzione.

La prima questione sollevata – su cui a nostra volta insistiamo da tempo – ha a che fare con il populismo e con la sua radice.

Il populismo, che è categoria efficace e precisa, esiste. Ne va riconosciuta la sostanza: una visione corporativa del popolo che ignora le differenze che fratturano la società e gli interessi contrapposti.

Il populismo mette alla testa di una idea mitica e organica di popolo capi carismatici che saltano la mediazione delle forme moderne della democrazia e della rappresentanza. I congressi non si fanno, i proprietari decidono vita e morte politica degli aderenti, in una guerra permanente concepita e armata intorno all’evocazione ossessiva del cambiamento che purifica e redime.

Però non basta: bisogna indagare le cause, senza commettere l’errore di rimanere a nostra volta imprigionati nel fortino screditato che il populismo assedia. Prodi ha di nuovo ragione: alla base del populismo c’è la paura sociale che a sua volta è causata dall’insicurezza economica e dalla crescente diseguaglianza.

Qui hanno origine le faglie che stanno scuotendo il mondo occidentale. Dopo otto anni di crisi economica, Soros compra miniere d’oro e cioè scommette sull’esplosione di un nuovo ciclo di turbolenze. Le diseguaglianze e i tassi di disoccupazione aumentano, mentre crolla il potere d’acquisto e con esso il concetto stesso di «classe media».

Così si spiega il consenso plebiscitario delle periferie alla Lega Nord e soprattutto al M5S: non soltanto e non tanto per una richiesta di nuova moralità della politica, ma per il bisogno disperato di affidarsi a chi promette, nell’insicurezza e nella paura, di voltare pagina.

Rispetto a cosa? Rispetto a una lunga stagione nella quale il centro-sinistra non è stato argine alle diseguaglianze, ma al contrario fattore decisivo della loro esplosione, attraverso legislazioni che hanno precarizzato il mondo del lavoro, desertificato il patrimonio industriale e indebolito lo Stato sociale; e attraverso politiche fiscali che hanno garantito le rendite parassitarie contro il lavoro.

Cos’è tutto questo se non la dimostrazione di quella inarrestabile tendenza all’omologazione delle classi dirigenti della sinistra italiana ed europea (ben prima di Renzi e ben oltre Renzi) che Prodi riconosce?

Il secondo punto che l’intervista solleva ci riguarda da vicino e ci mette in guardia rispetto all’illusione che per risalire la china basti rincorrere le semplificazioni, sfornando – senza un sistema di pensiero alle spalle – allusioni emotive che si adattino alle paure e al sentire comune. Per battere il populismo e sostituirsi a esso con una proposta seria e incisiva di trasformazione servono – dice Prodi – progetto e radicamento popolare. Due cose antiche: un punto di vista autonomo sul mondo (cioè un’interpretazione della storia e del presente) e un’organizzazione capillare, capace di vivere tra le pieghe del territorio, nella sofferenza e nella fatica di settori crescenti di società.

L’identità e, soprattutto, la pratica della sinistra sono parte integrante di questa impresa. Non è vero – come non a caso dicono tutti i populisti, a partire da Marine Le Pen in Francia – che destra e sinistra non esistono più. Esse esisteranno ancora a lungo, almeno fino a che la radice della diseguaglianza non sarà estirpata dalla nostra vita associata.

Semmai dobbiamo essere consapevoli di due fatti: che nel nostro Paese «sinistra» è concetto vituperato dai guasti compiuti da chi ha sin qui governato; e che a oggi un’alternativa percepita come utile e vincente esiste già ed è il M5S.

Per questo è falso sostenere che esistano di fronte a noi praterie. Al contrario, la strada è stretta. È vero invece che, archiviati i ballottaggi, si apre una fase molto fluida e aperta a qualsiasi scenario. Guai a noi se rimanessimo nell’angolo, magari nell’ennesimo contenitore pattizio della sinistra radicale, a commentare i risultati altrui o se dessimo addirittura l’impressione di voler salire sul carro del vincitore.

È il tempo di giocare a viso aperto la nostra partita. Dobbiamo prepararci a vincere il referendum sulla Costituzione e lì dare la spallata decisiva alla legge elettorale e al governo. Allo stesso tempo, dobbiamo sollecitare e raccogliere una discussione larga che attraversi il Pd e il vasto mondo democratico e progressista di questo Paese. E mantenere, noi, la lucidità: che vuol dire rimanere autonomi – culturalmente prima ancora che politicamente – dalle sirene populiste e da Grillo, Casaleggio, Di Maio. Dove loro crescono, noi non esistiamo. Se loro crescessero ancora, noi scompariremmo. E se loro tra un anno governassero l’Italia, grazie a Renzi e a una legge elettorale truffaldina, magari con i voti al secondo turno di Salvini, sarebbe una pessima notizia. Fare cadere Renzi ed evitare questo scenario è il compito – decisivo – dei prossimi mesi.

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