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Non chiamatela diaspora: «Io vivo in esilio perché tornare a casa non è un’opzione»

Non chiamatela diaspora: «Io vivo in esilio perché tornare a casa non è un’opzione»Prigionieri nel carcere di Tora – Ap

Egitto La testimonianza di Mina Thabet: «Se tornassi rischierei la vita o verrei rispedito in galera. In carcere ti senti vulnerabile: non controlli nulla, il tuo tempo, il modo di mangiare, di andare al bagno»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 8 ottobre 2022

Nel 2017, quarto anno della lotta al terrorismo scatenata dal governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi, personale dei Nocs, i nuclei antiterrorismo dei carabinieri italiani, ha partecipato con gli omologhi egiziani del National security service (Nss) a operazioni culminate con la «cattura di presunti fondamentalisti islamici in territorio egiziano».

Uno scenario «preoccupante che solleva interrogativi etici data la sistematica violazione dei diritti umani in Egitto», denuncia l’associazione italo-egiziana EgyptWide. L’Nss, forza di polizia antiterrorismo e controspionaggio, è giudicata da parte di numerose organizzazioni indipendenti responsabile di abuso di potere e violazione del diritto internazionale e delle leggi egiziane. Amnesty International lo fa in un rapporto dettagliato con le testimonianze di 28 persone sottoposte al temuto «monitoraggio».

Una procedura illegale che comprende la citazione, una volta a settimana presso gli uffici dell’Nss, senza mandato; interrogatori anche fino a sei ore; tortura, maltrattamenti, abusi sessuali, violazioni della privacy. Non si è più padroni della propria vita, molti fuggono all’estero ma il telefono continua a squillare, dall’altra parte insulti e minacce: resterai in fuga per sempre.

Guai a chiamarla diaspora quella egiziana (sarebbero oltre 10 milioni all’estero): «Io sono in esilio perché non ho l’opzione di tornare indietro», ammonisce Mina Thabet, giovane ricercatore egiziano. Nel 2016 è stato «aggredito e gettato in prigione senza un regolare processo, per aver svelato discriminazioni contro le minoranze», ci racconta.

«Accusato di essere un terrorista, ho passato due mesi in carcere e sono fortunato rispetto a colleghi condannati ad anni di prigione. Se tornassi rischierei la vita o verrei rispedito in galera. Umiliavano la mia famiglia, gli amici che venivano a trovarmi, non voglio che accada di nuovo. In carcere ti senti vulnerabile perché non controlli nulla, il tuo tempo, il modo di mangiare, di andare al bagno. Non hai diritto a libri, a lavare la maglietta».

«La paura – continua Mina Thabet – ti accompagna sempre, è quello che vogliono. Ma nel 2022 non puoi impedire alle persone di parlare. Ora vivo a Londra e vedo la vita da un’angolatura diversa. Ho 32 anni e mi oppongo con tutte le forze a questo sistema».

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