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«Noi riders e cottimisti viviamo attaccati al telefono»

«Noi riders e cottimisti viviamo attaccati al telefono»Torino, una protesta dei ciclo-fattorini di Foodora

Torino Giuseppe, studente e ciclo-fattorini di Foodora: «La vita simbiotica con la macchina è già realtà: siamo noi». «Un giudice non ha voluto riconoscere i nostri diritti, ma noi siamo lavoratori»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 aprile 2018

Ricorre nella storia di Giuseppe la parola «cottimista». «Sono un cottimista», «noi cottimisti viviamo attaccati al telefono», «per diventare un cottimista basta un mail e una foto», «più roba consegni più guadagni, così si guadagna facendo i cottimisti».

Giuseppe è uno studente di giurisprudenza che sta preparando la tesi di laurea, in anti-lingua è un «rider», ovvero un fattorino che si muove in città sulla sua bici portando pacchi, cibo e buste, ma soprattutto è uno dei sette che ha trascinato in tribunale Foodora: un giudice ha sentenziato che lui e i suoi colleghi non hanno, al momento, diritto al riconoscimento del lavoro subordinato come chiedevano. Sentenza di primo grado da alcuni attesa, da molti vissuta come un fulmine a ciel sereno. Leggeranno le motivazioni della sentenza, e poi avvocati e fattorini tenteranno di sovvertire l’esito di primo grado in appello.

Appuntamento presso la Cavallerizza Irreale, enorme maneggio barocco – bene patrimonio Unesco – messo sul mercato causa debiti dalle varie amministrazioni torinesi, occupato da quattro anni. Qui ha sede la Clap, Camera del lavoro Precario di Torino, esperimento che tenta di mettere insieme i pezzi. Giuseppe arriva in bici, e le sue parole sembrano cavate dalla bocca di Ludovico Massa, detto Lulù, l’operaio massa di Gian Maria Volontè e Elio Petri: non ci sono più i pezzi, sostituiti dai pacchi, dai polli, dai risotti, dal sushi.

Dopo un lungo inverno, freddo come non si ricordava da anni, è giunta a Torino l’estate. Un problema per i fattorini cottimisti che corrono in bici. La neve dell’inverno, la pioggia, la nebbia sono i migliori datori di lavoro: le persone stanno a casa e con un semplice tocco sul telefono fanno lavorare: «più corri, più guadagni» è il nuovo «un pezzo, un culo» come diceva Lulù. E invece adesso queste tragiche serate miti, i torinesi si ostinano ad uscire, si riversano nelle piazze dove, a pochi metri di distanza, bivaccano con le loro bici in attesa i ragazzi che corrono con maglietta e caschetto rosa, verde, blu d’ordinanza: in attesa che tre euro si manifestino sul telefono.

«Non è spiegabile a parole – racconta Giuseppe – la nostra dipendenza dal telefono, la vita simbiotica con una macchina è già realtà: siamo noi. La velocità con cui rispondiamo al minimo segnale di richiesta della app: in queste serate estive ci troviamo sulle panchine, in zone strategiche della città, in attesa che si illumini lo schermo delle nostre vite». La bicicletta da corsa di Giuseppe è perfettamente pulita, oliata, lucida. Dalla sella potrebbe essere sceso da qualche secondo Moser o Lemond, perché è di quelle che hanno ancora il cambio sul telaio in acciaio, le ruote a basso profilo e i fili dei freni che incrociano davanti al manubrio. Pedalare in città, tra rotaie del tram e buche trappola, con un mezzo simile necessita di perizia e coraggio. Il cambio della bici di Giuseppe è piazzato su un rapporto molto duro, 54X17, segno che quando ci si muove per consegnare qualcosa l’unica cosa da fare è spingere forte sui pedali e correre.

Poco più di dieci giorni sono passati dalla sentenza e la domanda che si è allargata come una macchia d’olio in questi giorni è tra quelle sgradevoli che si sussurrano: ma è veramente auspicabile essere subordinati a una vita così? Giuseppe che spinge rapporti duri come macigni per guadagnare pochi euro non ha dubbi: «Potevamo chiedere più denaro, meno concorrenza fra di noi, benefici vari, e rimanere esterni. Abbiamo chiesto di non essere più cottimisti, di essere assunti, per una questione di civiltà e perché ci è stato promesso mille volte. Un giudice non si è voluto prendere la responsabilità di riconoscere i nostri diritti in un momento di vuoto politico, ma noi puntiamo a contratti collettivi regolari proprio per questo».

Le dimensioni del «delivery», della logistica spicciola sui pedali, stanno assumendo dimensioni ignote perfino a chi vi opera: «In realtà – spiega Giuseppe – non so nemmeno io quanti siamo a Torino a lavorare in questo settore. Avendo come luogo di lavoro ognuno la sua panchina, manca la percezione della comunità, mancano perfino le parole. Sembra di essere dentro un videogioco a volte: e chi riceve la merce a casa non ha idea di chi siamo, cosa facciamo e di quanto siamo pagati». Così la sconfitta in tribunale per i fattorini che ruotano attorno alla Camera del lavoro Precario di Torino potrebbe perfino portare alla costruzione di una nuova coscienza di classe. «La maggior parte dei miei colleghi non sapevano del processo in corso. Così come non lo sanno gli stessi clienti; ma la percezione che ci sia qualcosa di strano, di assurdo, in questo modello di lavoro è diffusissima: l’ampio rimbombo mediatico ha allargato le parole di questo malessere silenzioso».

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