Cultura

Nina Wähä, tutto il nero del profondo nord

Nina Wähä, tutto il nero del profondo nordUn’immagine dal film finlandese «Oi, kallis Suomenmaa» (Our Dear Native Land) di Mika Waltari (1940) sulla condizione dei rifugiati durante la guerra

L'intervista Parla la scrittrice, sceneggiatrice e attrice svedese che pubblica «Il testamento» per Carbonio. Il lato in ombra della Scandinavia in un memoir venato di suspense ambientato nella Finlandia rurale. «Sono cresciuta in una famiglia operaia, senza libri ma con tanti narratori. E ho ascoltato così anche le storie più drammatiche. E ora è il mio turno di contribuire a questa tradizione»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 21 dicembre 2023

Il seme della violenza e dell’odio che alberga in Pentti sembra destinato a riemergere nei suoi figli e nelle sue figlie, malgrado ne siano proprio loro le prime vittime. Eppure anch’egli, a sua volta, pensa di aver ereditato quello spirito selvaggio dal padre, che nascondeva le proprie pulsioni dietro l’immagine del «buon cristiano». Nella valle del fiume Torne, che segna il confine settentrionale tra Finlandia e Svezia, una famiglia di contadini fa i conti con la durezza della vita, ma anche con le ferite e i segreti inconfessabili che cela al proprio interno. Sullo sfondo, il peso della natura, gli inverni inclementi e l’isolamento della zona, ma anche il fardello della Storia: da giovane Pentti ha combattuto nella cosiddetta Guerra d’inverno tra russi e finlandesi tra il 1939 e il 1940, mentre Siri, sua moglie, viene dalla regione della Carelia che fu ceduta all’Urss nel 1940.

Svedese, classe 1979, ex cantante e attrice, sceneggiatrice e docente di scrittura creativa, con il suo terzo romanzo, Il testamento (traduzione di Stefania Forlani, Carbonio, pp. 416, euro 21) selezionato per alcuni dei maggiori premi letterari del Nord Europa e che in patria ha venduto oltre 120mila copie, Nina Wähä paga un tributo alla propria terra d’origine, come ai fantasmi della propria storia famigliare, descrivendo un mondo scandinavo per molti versi inedito, cupo, inquietante. Con una lingua chiara che restituisce le forti emozioni ma anche i molti silenzi dei protagonisti, la scrittrice mette in scena i segreti, talvolta fatali, intrecciati ai legami famigliari e il doloroso orizzonte di una liberazione che per i personaggi del suo romanzo consta sempre di un alto prezzo da pagare.

In un’intervista al quotidiano fiammingo De Morgen lei fa riferimento alla figura di sua nonna e alla volontà di lasciare una traccia della sua storia quando quest’ultima avesse perso la memoria. Il romanzo è nato così?
Da quando faccio questo lavoro ho capito che prima o poi avrei dovuto scrivere del mio luogo d’origine, che è la valle del fiume Torne che scorre nel nord della Svezia e della Finlandia. Ho iniziato a scrivere Il testamento quando a mia nonna è stato diagnosticato l’Alzheimer, credo per cercare di elaborare il dolore. Mi sembrava importante raccontare la storia di una grande famiglia povera e disfunzionale (molto simile a quella di mia nonna, anche se il romanzo non è una biografia) che vive in un territorio e appartiene ad una classe sociale, entrambi raramente rappresentati nella narrativa contemporanea. Attraverso la letteratura facciamo esperienza del mondo e se solo gli autori della classe media urbana, magari legata all’Accademia, raccontano le loro vicende, rischiamo di costruire un immaginario davvero piccolo e con un scarso rapporto con la realtà concreta della vita.

Nina Wähä © Norstedts Förlagsgrupp

Al centro della storia c’è una famiglia contadina che vive nel terrore di Pentti, padre di quattordici figli, tra maschi e femmine, che la moglie Siri definisce «una forza distruttrice»: il patriarcato è uno dei protagonisti del romanzo?
Il libro è ambientato negli anni ’80, quando il mondo era (come è del resto ancora oggi) una società patriarcale: una realtà in cui il confine tra uomini e donne e tra i loro ruoli e «territori» di competenza è netto e invalicabile. Allo stesso tempo, in quel periodo, per i bambini della famiglia Toimi lo spazio circostante si stava lentamente aprendo. Erano la prima generazione di questa particolare classe rurale capace di sognare: una vita migliore o, semplicemente, una vita diversa. Ma l’inizio di questo percorso non è facile e soprattutto il padre accoglie con pochissima comprensione ogni cambiamento. Pentti è un’incarnazione del mondo patriarcale, ma ne è anche in qualche modo una vittima. Il patriarcato non serve a nessuno.

Da lettori scopriamo la visione che Annie, una delle figlie che è riuscita a trasferirsi a Stoccolma, ha della propria famiglia: «un groviglio di code di topi che si ritrovano intrecciati contro la propria volontà». Un groviglio che nessuno appare in grado di sciogliere È così?
Credo si tratti di una lotta in cui siamo tutti coinvolti, in un modo o nell’altro. Nel momento in cui nasci inizia il processo di liberazione dalla tua famiglia e, in questo senso, è davvero un lavoro doloroso crescere come essere umano. Attraverso ciò che scrivo penso di indagare spesso il concetto di verità in contrapposizione a quello di memoria. Mi spiego: è strabiliante constatare quanto siamo profondamente intrecciati con i nostri fratelli e, tuttavia, come sia quasi impossibile avere un’esperienza di crescita comune anche all’interno della stessa famiglia.

Misteri, segreti, violenze, un omicidio. «Il testamento» ha anche un profilo «noir» che sembra indicare come solo un atto violento può condurre alla libertà…
Non ci avevo mai pensato in questi termini, ma forse è vero. Fa male cambiare, e la libertà può arrivare solo con una qualche forma di sacrificio, e un sacrificio fa sempre male. Quindi immagino che dipenda da come si definisce la violenza, ma sicuramente non è mai qualcosa privo di dolore.

Lo spazio naturale è uno dei protagonisti del romanzo. L’isolamento estremo, la distanza dalle metropoli, lo stesso fatto che la regione del Torne sia situata al confine tra Svezia e Finlandia, la rende una zona incerta. Cosa rappresenta per lei ?
Come ho detto, sapevo che prima o poi avrei dovuto scriverne: è un luogo remoto e questo influisce sulle persone che vivono lì. In qualche modo vivere lontano dalle grandi città può farci anche del male, influire negativamente sulla nostra autostima. La costante ricerca di qualcosa di più grande è forse nella nostra natura? Storicamente la Finlandia è sempre stata considerata come un fratello minore della Svezia, e nella valle del Torne, dove svedesi e finlandesi vivono mescolati su entrambi i lati del confine, ciò era evidenziato dal fatto che a questi ultimi non era permesso parlare la loro lingua a scuola: un trauma dal quale la Svezia si sta ancora riprendendo. Per me era importante ritrarre questa campagna isolata e i suoi abitanti, anche se penso che una simile mentalità si possa trovare in quasi tutti i Paesi: villaggi e piccoli centri dove il tempo scorre più lentamente e la vita sembra più difficile, la famiglia è l’unica «società» in cui vivi e all’interno della quale devono esistere tutte le funzioni sociali. Un contesto claustrofobico e dove è difficile adattarsi.

Il romanzo racconta anche come si tramandano le storie e la memoria del passato all’interno delle famiglie. È un tema legato alla sua scelta di scrivere?
Sono cresciuta in una casa della working class dove nessuno leggeva dei libri e certamente non pensava di scriverli. Ma la mia famiglia è piena di narratori, è il loro modo di socializzare. Così, ho ascoltato anche le storie più drammatiche, ma che variavano sempre a seconda di chi le raccontava. E sono effettivamente convinta che questo sia uno dei motivi per cui sono diventata una scrittrice: cercare di contribuire con qualcosa di mio a questa ricca tradizione narrativa. Raccontare storie è anche un ottimo modo per elaborare situazioni traumatiche del passato, qualcosa di cui penso che tutti abbiano bisogno, anche se non disponiamo del linguaggio adatto. Se racconti una storia «controlli» la narrazione e questo ha in qualche modo un valore curativo.

Il libro evoca alcuni capitoli decisivi della storia della Finlandia e il complesso rapporto con il potente vicino russo. Da questo osservatorio come guarda alla guerra in Ucraina e al ruolo attuale di Mosca?
Mi rattrista molto che la propaganda non finisca mai e che questa tradizione di mentire alle persone sia così antica che è persino difficile comprendere come sarebbe possibile fermarla. La mia speranza è che Paesi come la Svezia, con le nostre forti basi democratiche, possano aprire la strada in questa lotta contro il fascismo.

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