Economia

Niente soldi ai supplenti a scuola, ma si comprano 70 milioni al giorno di armi

Niente soldi ai supplenti a scuola, ma si comprano 70 milioni al giorno di armi

Il caso Bonus e altre briciole al Welfare e alla sanità, ricco il piatto del complesso militare-industriale. Ecco come il governo intende affrontare la nuova crisi mentre aumentano precarietà e povertà. E lo scontro con i Cinque Stelle non riguarda il cambiamento di questa tendenza ma solo la tempistica per arricchire il capitalismo armato

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 31 marzo 2022

Mentre la spesa per la sanità pubblica, la scuola o quella per uno dei Welfare più iniqui e familisti d’Europa resta sottodimensionata e, in alcuni casi, inferiore al periodo pre-pandemico, le spese militari aumenteranno di 12-13 miliardi di euro entro il 2024 come previsto anche dal governo. Per il 2022, anno draghiano, il totale di questa spesa è oltre 25 miliardi, 1.352 milioni di euro in più rispetto al 2021.

Questa tendenza è iniziata anche prima della pandemia a livello globale. «Nel 2021 le spese militari nel mondo sono aumentate di cinquanta miliardi di dollari, superando i duemila miliardi di dollari, 10 volte di più di quanto si è stanziato per il Covax per assicurare gratuitamente i vaccini ai paesi poveri» ha denunciato Sbilanciamoci.

«Troviamo assurdo che in un paese, agli ultimi posti per la spesa in istruzione in area Ocse, si investano 13 miliardi nell’acquisto di armi e non si trovino le risorse per la proroga dei contratti di supplenza covid fino al termine delle lezioni. Se così fosse la credibilità del ministero dell’Istruzione sarebbe ulteriormente minata» sostiene la Flc Cgil.

Lo scontro elettorale in atto nel governo potrà forse trascinare il termine deciso dalla Nato al 2028, come ha proposto il ministro della difesa Lorenzo Guerini (Pd), o al 2030 come sostengono per ora Conte e i Cinque Stelle. Un dato è certo: l’aumento c’è già stato e continuerà. La maggioranza dei residuali investimenti pubblici è, da tempo, concentrata sul complesso industriale-militare. Il fatto non è negato dai Cinque Stelle che, anzi, ieri hanno rivendicato l’azione dei governi Conte. Il loro trasformismo ha cambiato maggioranze opposte, ma ha rispettato la direttiva Nato. Infatti la spesa militare è aumentata per un totale di 2,7 miliardi di euro nei tre anni giallo-verdi-rossi (da 21,7 a 24,4 miliardi).

«È un aumento legato in particolare a nuovi investimenti in sistemi d’arma con fondi sempre più messi direttamente a disposizione della Difesa, mentre si riduce la quota parte destinata ad investimenti militari sul bilancio del ministero dello Sviluppo Economico – ha spiegato Francesco Vignarca di Rete Disarmo nella Contro-finanziaria 2022 di Sbilanciamoci – Questo è il punto di partenza per valutare la spesa militare italiana complessiva che deve registrare in più cifre iscritte presso altri ministeri e e deve invece vedere sottratta la grande maggioranza del bilancio dei Carabinieri».

I grillini non avanzano alcuna critica al quello che sembra essere l’esito della crisi innescata dall’aggressione russa contro l’Ucraina: il rilancio militare di un capitalismo fossile, spezzato dalla pandemia e già piombato in una nuova crisi, mentre si annunciano altre forme di recessione. «Quei soldi oggi servono per le spese sociali e non a un progetto futuro che sicuramente dobbiamo rispettare ma che possiamo farlo con i tempi adeguati» ha confermato ieri il ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli.

Viene allora il dubbio che i Cinque Stelle sembrino fare una battaglia «di sinistra» per il potere di acquisto dei salari nel caro bollette o per il rilancio della spesa sociale soffocata da vent’anni e più di austerità. In realtà, come lo stesso Draghi, tutti si muovono in quello che lo storico dell’economia Adam Tooze ha definito, ne L’anno del rinoceronte grigio (Feltrinelli) sulla pandemia del Covid, un «Welfare senza Stato sociale»: un regime politico conservatore, in perenne emergenza, che non fa investimenti sociali ma eroga incentivi e bonus. Così si aggravano le diseguaglianze e si preserva «la gerarchia dello status sociale».

Ieri l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) ha reso note le conclusioni di due ricerche sul Welfare in Italia. Solo lo 0,2% del Pil è destinato ai servizi sociali e alle misure per i disoccupati, mentre la spesa pensionistica assorbirebbe oltre il 16%. Questa valutazione è forse la meno interessante della ricerca. Va ricordato, come fa Felice Roberto Pizzuti, che non bisogna fare confusione tra le voci previdenziali e quelle assistenziali del bilancio statale. Dopo le problematiche riforme neoliberali degli anni 90 i saldi previdenziali sono in attivo. Più importante è il fatto che l’occupazione sia più insicura e mal retribuita.

L’Inapp parla di «lavoro povero» che nega una pensione e erode le tutele contro la precarietà e la disoccupazione. Nell’attuale clima bellicista non si parla di una vera riforma del mercato del lavoro e misure come il cosiddetto «reddito di cittadinanza» hanno solo attutito gli effetti «della crisi pandemica su disuguaglianze e povertà». «Resta ancora in ombra il fronte dei servizi, la protezione universale, e l’attivazione per l’inserimento lavorativo» sostiene Sebastiano Fadda, presidente Inapp.

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