Raccontare il presente è l’obiettivo di ogni artista contemporaneo, che altrimenti non potrebbe essere con-temporaneo, capace di esperire la temporaneità insieme con coloro che la vivono nello stesso momento. Temporaneità anziché temporalità, perché la contemporaneità è tutta nel suo statuto transeunte, che non è la simultaneità del presente, ma la sua labilità. Raccontarlo al passato, il presente, come se fosse già dato, questo il contemporaneo non può farlo.

Sembra non saperlo Nicole Eisenman, artista di Brooklyn, che ha dato alla sua mostra in corso a Chicago il titolo di What Happened (‘Quello che è successo’, al Museum of Contemporary Art, fino al 22 settembre), come se volesse raccontare, al passato appunto, gli ultimi trent’anni di storia individuale e collettiva, dalle lotte per i diritti civili negli anni novanta alla guerra in Iraq negli anni duemila, all’invasione della tecnologia che ci ha portato ad avere tutti delle estensioni personali elettroniche in forma di appendici corporee negli anni dieci fino all’ossessione della pandemia negli anni venti.

Tutto quello che è successo, però, non è solo un passato finito, ma è la ragione di quello che siamo, nella consapevolezza che siamo tutti dentro una storia collettiva che è più grande di noi. Storia collettiva eppure vissuta individualmente, nei corpi e nelle emozioni dei soggetti, al punto che non c’è sua rappresentazione che non contempli la presenza della folla, nella quale, a differenza di quanto accadeva tra Otto e Novecento, gli individui non sono anonimizzati, ma si distinguono ciascuno per la differenza che porta con sé.
Succede così, ad esempio, in Coping, del 2008, dove la gente reagisce all’inondazione cercando di mantenere la propria vita senza farsi travolgere dalla violenza della natura; oppure in Beer Garden with Ulrike and Celeste, del 2009, dove una coppia poco comunicativa, ciascuno con la propria solitudine, si staglia sullo sfondo del giardino affollato all’interno di un bar; oppure in Another Green World, del 2015, dove la festa è fatta dalla somma degli individui anziché da un’armonia condivisa. Tutti sono soli e tutti sono insieme, nella società più interconnessa e più depressiva che la storia abbia conosciuto, quella degli ultimi trent’anni.

Ma si era insieme per lottare, rivendicando il diritto collettivo delle donne e individuale di ciascuna donna alla libertà e al piacere, fin dagli anni novanta, quando gruppi di amazzoni eviravano gli uomini e si divertivano fra loro, come accade in Captured Pirates on the Island of Lesbos (1992). Collettive, le composizioni degli anni novanta, quando Eisenman era impegnata in prima linea sulla scena lesbian e queer di NYC, lo erano però anche perché l’artista stava sperimentando con istallazioni di grandi pannelli, giustapponendo disegni, fotografie, collage, in un ordinato disordine che restituisce la scena di un mondo, quello dell’arte, che pretende di dare criteri rassicuranti quando tutto sta scoppiando. Perciò una di queste composizioni si chiama Pagan Guggenheim (1994), dove il collezionismo di Peggy viene desacralizzato all’insegna di una nuova potenzialità, che non ha nulla a che fare con l’esibizione radical chic dell’opera d’arte, ma sta nella lotta politica.

Per realizzare quest’operazione di lotta Eisenman si è rivolta a due numi tutelari apparentemente inconciliabili, il disegno fumettistico da un lato e l’arte rinascimentale dall’altro: è da questa fusione paradossale che nasce il suo stile, capace di dare evidenza plastica alle figure, grazie ai contorni netti, ai colori caldi e ai tratti caricaturali (tutti elementi da cartoon), ma anche di sistemarle in una disposizione collettiva, che spesso discende dai grandi maestri europei, da Bruegel il Vecchio e Hans Holbein fino a Ingres. Solo stridendo rispetto alle aspettative, umoristicamente, e aggredendo lo spazio dello spettatore, visivamente, si può raccontare il presente.

Di qui una retrospettiva che rende conto della sua evoluzione tematica e stilistica, sullo sfondo della storia collettiva e della sua biografia, ma anche che evita troppo meccaniche partizioni cronologiche, perché lo spettatore è invitato a cogliere, di quest’esperienza, il suo bisogno costante di esprimere il dissenso, sfidando, e di ridurlo a forma, fermandolo: dinamico nella sua energia potenziale, ma anche fissato nella stabilità adamantina dell’opera, il presente diventa una forza che s’impone, cui non si può sfuggire, che lacera e imprigiona, ma pure fa esplodere contraddizioni e libera energie. Come può il Tintoretto di Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia venire trasformato in una miracolosa pioggia dorata che scende dai pisellini dei cherubini (Lemonade Stand, 1994) o il Michelangelo della Leda e il cigno diventare un sorprendente cunnilingus, se non perché entrambi sono presenti, sottratti all’immobilità del loro presente e immessi violentemente in un altro presente?

Nicole Eisenman, Tail End, part., 2021

Presente che pretende d’imporsi, appunto, come quando gli uomini d’affari contemplano dall’alto delle nuvole il mondo per gestirlo a loro piacimento, ma anche inesorabilmente transeunte, in forma di carovana, come quando i poveri si ritrovano in fila dietro a un uomo d’affari che ha il sedere al posto dello stomaco, in una singolare inversione tra avanti e dietro che invita all’interpretazione allegorica. Allegoria, allora, come luogo della compresenza del dettaglio e del simbolico, al fine di rimandare a un universo delle idee che non prevarichi mai, tuttavia, sul fluire del tempo, come nel quadro politico più bello di Eisenman, Heading Down River on the USS J-Bone of an Ass (2017), dove tre uomini, un pifferaio, un marinaio accecato dal suo stesso berretto e un uomo d’affari, scivolano inesorabilmente verso una cascata su una gigantesca mascella d’asino che è diventata la loro zattera: allegoria della deriva del presente, ma, appunto, allegoria del movimento, e in movimento, anziché con ambizioni di fissazione metafisica. Il dialogo è, anche qui, con un classico: Washington Crossing the Delaware di Emanuel Leutze (1851), il cui nazionalismo eroico si è trasformato nell’isolamento e nell’incomunicabilità di una comunità che non ha più ragion d’essere.

Immettere la lunga durata del modello sull’effimero del proprio è il suo colpo di genio: collasso ed eternità convivono, in una congiunzione impossibile che li nega entrambi, ribadendoli. Tutto s’ingigantisce, allora, nel suo occhio, soprattutto quando il selfie non può che essere che del proprio occhio che s’impadronisce della fotografia, con un sé raddoppiato dallo sguardo su di sé, oppure quando l’artista diventa parte del gioco commerciale dei committenti, fino a identificarsi tout court con La Cosa dei Fantastici Quattro. Le appropriazioni sono maliziose: Hopper porta tanta malinconia, ma alla solitudine si risponde con la folla; mentre Raffaello ha costruito armonia, cui il dettaglio irridente toglie ogni estetizzazione.

È un’arte politica, questa, figurativamente potente (quasi solo tele di grandi dimensioni), che racconta il presente per cambiarlo, ma non riesce a volerlo cambiare fino in fondo, perché, nella desolazione devastante che domina tutto, c’è sempre un dettaglio che si salva, la mamma col neonato in braccio che si affida al padre che le indica la direzione, l’accendino che dà vita a una sigaretta che mette in comunicazione due solitudini, la coperta di un picnic durante una manifestazione, la pianta fiorita fuori dal finestrino del treno. C’è una gioia di vivere alla Matisse nelle amazzoni di Lesbo che si lanciano in girotondo; ma c’è soprattutto il bisogno di demolire le verità costituite, come nel trittico, d’ispirazione medievale, dove si susseguono un naufragio, il recupero e la risalita: un’allegoria dantesca di un mondo che non conosce la salvezza, ma la cerca disperatamente, e forse la costruisce, giorno per giorno?

Sono gli oggetti, infine, a fare da ultimo rifugio in un mondo senza senso: l’unico strumento per riconnettere solitudine e gruppo, così come lei stessa ha riconnesso passato e presente, classico e pop, omaggio e trasgressione, distillato manieristico e realismo socialista. Un laptop sul treno, un corteggiamento attraverso lo schermo, una coppia di amanti sul sofa, cellulari dappertutto: Nicole Eisenman è l’artista del nostro presente.