«Ogni accordo che libera dei prigionieri per me è una vittoria, lo è per tutte le parti. Poi ognuna lo interpreta a modo suo. In Israele c’è chi ritiene sia il segno della debolezza di Hamas e chi pensa al contrario che Hamas abbia costretto Tel Aviv a una tregua che non voleva». Sull’accordo tra Israele e Hamas abbiamo parlato con Neve Gordon, professore di diritto internazionale alla Queen Mary University of London e autore di diversi saggi, tra cui Il diritto umano di dominare e L’occupazione israeliana.

Netanyahu è stato chiaro: l’accordo non pone fine alla guerra. Che significato va dato a questo scambio?

I discorsi sono due. Uno è quello europeo che pensa che lo scambio possa estendersi fino a un cessate il fuoco e magari a un qualche accordo sul processo di pace e uno è quello ebraico, dentro Israele: l’accordo funzionerà per quattro giorni, estendibili a dieci per rilasciare un numero maggiore di ostaggi dei 50 previsti, ma dopo quei dieci giorni si marcerà verso sud. I combattimenti non finiranno. C’è chi vede in questo una possibile fonte di scontro tra Biden e Netanyahu ma il premier israeliano non scenderà a compromessi: la fine della guerra è la fine della sua carriera. Netanyahu ha un interesse, sia personale che politico, a proseguire.

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Netanyahu ha subito una doppia pressione? Quella esterna, statunitense, e quella interna, delle famiglie degli ostaggi e di buona parte della società israeliana.

La grande maggioranza della società israeliana appoggia l’accordo perché sostiene i familiari che hanno fatto un lavoro incredibile nel mobilitare l’opinione pubblica e perché si tratta del rilascio di donne e bambini. La pressione di Biden è stata altrettanto intensa per il livello di violenza letale che Israele sta scatenando e la morte di così tanti civili palestinesi, oltre 5mila bambini. La domanda vera è perché l’accordo non è stato raggiunto prima. Perché Israele voleva prima prendere lo Shifa Hospital. Solo dopo esserci entrato e aver completato buona parte dell’occupazione del nord di Gaza ha accettato l’accordo. Ora Israele pensa di aver raggiunto un livello di controllo del nord tale da potersi permettere lo scambio.

In passato tregue simili sono state violate. Stavolta però c’è di mezzo la liberazione di duecento persone. Conviene a tutti che la pausa regga?

Possono frapporsi degli ostacoli: la Jihad islami potrebbe lanciare un razzo, o l’esercito israeliano potrebbe approfittarne per compiere omicidi extragiudiziali di leader palestinesi. Ma credo che entrambe le parti vogliano l’accordo abbastanza da farlo reggere.

Martedì sera l’ultradestra annunciava il proprio voto contrario all’accordo. Poi Sionismo religioso del ministro Smotrich ha fatto un passo indietro e l’unico a opporsi è stato Potere ebraico di Ben Gvir. Che peso hanno nella coalizione di governo, in piena offensiva, i nazionalisti religiosi?

Si tratta di partiti con un’enorme influenza nelle attuali dinamiche israeliane. Quello che hanno ottenuto in questo caso è il rifiuto a un cessate il fuoco di lungo periodo. Dieci giorni al massimo, poi basta. Anche Netanyahu è contrario a estenderlo, ma di certo questi partiti si assicureranno che non cambi idea. Hanno dovuto cedere sull’accordo di martedì perché c’erano di mezzo dei bambini rapiti. Allo stesso tempo va ricordato che queste forze sostengono la pulizia etnica in Cisgiordania, sostengono milizie di coloni. Ben Gvir sta creando milizie anche dentro diverse città israeliane. È la loro influenza a garantire il livello di repressione che vediamo oggi dentro Israele dove ogni tipo di protesta, anche di dieci o venti persone soltanto, viene violentemente soppressa dalla polizia. Ogni azione compiuta sui social media è monitorata, i cittadini palestinesi vengono arrestati o perdono il lavoro.

Dopo settimane trascorse a paragonare Hamas all’Isis arriva questo accordo. Se con l’Isis nessuno negozierebbe, lo scambio dimostra che con Hamas al contrario si può parlare? Cade un assunto teorico che pesava sul futuro?

Dimostra al mondo che Hamas è un gruppo con cui si può negoziare e con cui si può stipulare un accordo. È importante perché mina il discorso che lo presentava come un attore barbaro e irrazionale. Sul piano internazionale, abbiamo visto molti tentativi di «fondere» i palestinesi con Hamas, atti che hanno ad esempio portato la ex ministra degli interni britannica Braverman a sostenere che sventolare la bandiera palestinese significa sostenere il terrorismo e dunque meritarsi l’arresto. Questo atteggiamento potrebbe cambiare. Anche in Israele dove sta montando un discorso genocidario: un numero crescente di ministri e analisti per tutto il giorno dice che Gaza va rasa al suolo. Questo tipo di discorso eliminatorio è stato legittimato anche se è genocidario. Forse lo scambio potrebbe intaccarlo.

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In un suo recente articolo, ripubblicato dal manifesto, trattava il significato della «vittoria» dal punto di vista israeliano. Qual è oggi? Arrivare a prendere Rafah dove probabilmente si nasconde la leadership di Hamas e creare una zona cuscinetto più ampia sul confine orientale?

Temo che, dopo la fine della tregua, si realizzi uno scenario di distruzione del sud. Israele ha ordinato ai palestinesi di muoversi a sud definendola zona sicura anche se il 30% dei bombardamenti è stato compiuto lì. Oltre un milione di palestinesi è già sfollato là. Mi viene alla mente la guerra civile in Sri Lanka nel 2008-2009: il governo disse ai civili di spostarsi in tre zone sicure, 330mila civili si trasferirono e insieme a loro si mossero anche le Tigri Tamil. A quel punto il governo disse che le persone in quelle zone sicure erano scudi umani e le bombardò uccidendo 40mila civili. Il possibile scenario a Gaza è questo: che Hamas usi la tregua per spostare tutte le forze a sud che dunque diventerà il vero campo di battaglia, un campo di uccisioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: il sud è così sovraffollato e privo di cibo, acqua, medicine, bagni che la causa di morte principale saranno le malattie che potrebbero condurre a decine di migliaia, se non centinaia di migliaia, di morti.

Il 7 ottobre appare come un punto di svolta storico nella questione israelo-palestinese. Cosa ne pensa?

È un momento storico che condurrà a un cambiamento. Al momento Israele non ha modificato il proprio paradigma, lo sta solo intensificando. Un’escalation di violenza massiva che si traduce in un gioco militaristico a somma zero: o noi o loro. Lo stesso sul lato palestinese. Questa posizione va rotta, superata.