La grande tensione che ha circondato la prima sessione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja non è stata del tutto razionale, anche se in qualche misura comprensibile. Una decisione della Corte può richiedere diversi anni, ma si può sperare in qualche ordine relativo al cessate il fuoco temporaneo o alla trattativa sugli ostaggi.

Prima della guerra, l’attuale governo, corrotta coalizione tra il Likud del premier Netanyahu, l’estrema destra e i partiti ultra religiosi, aveva cercato per lunghi mesi di cambiare il sistema giudiziario spostando eventuali freni dalla magistratura a un più che problematico ramo esecutivo. L’enorme opposizione popolare aveva frenato alcuni dei tentativi. Per la destra, il noto ex presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barak – una figura di fama internazionale nel mondo del diritto – era un mostro che minacciava gli interessi della patria. Il ministro Dudi Amsalem, esperto in proclami di odio etnico e in formule demagogiche utili a incitare le masse, prometteva di spedirlo in galera per il resto dei suoi giorni.

Una parte della riforma giuridica collocava alti funzionari, esperti e procuratori nel campo dei nemici da epurare e da rimuovere dai ranghi del governo. Quando Netanyahu ha nominato proprio Aharon Barak come giudice ad hoc per rappresentare Israele all’Aja, la sorpresa è stata enorme e le proteste più violente si sono levate dal suo stesso partito.

Non è facile spiegare i diversi effetti dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Centinaia di morti, donne stuprate, bambini bruciati, corpi smembrati, case incendiate, saccheggiate o distrutte: oltre all’orrore, la domanda più tragica si riferiva all’assenza dell’esercito, della polizia, dello Stato. Dov’erano l’esercito più potente, le agenzie di sicurezza nazionale «sempre informate di tutto»?

Più di 200 ostaggi portati a Gaza, donne pubblicamente esibite e oltraggiate, alcune delle quali successivamente uccise. Uno shock enorme per tutta la nazione. Su questa base si sono costruiti la paura, l’odio, la convinzione della «vendetta necessaria».

Gaza è nota a tutti, eppure pochi israeliani capiscono che si tratta di soli 363 chilometri quadrati con più di due milioni di abitanti. Fino al 2005, Israele aveva stabilito alcuni punti di insediamento con circa ottomila abitanti, ma con un’occupazione iniqua del territorio e un uso mostruoso dell’acqua, pur così scarsa. Il compromesso del premier Ariel Sharon con gli statunitensi e la sua figura di uomo forte ma pragmatico avevano poi portato a quello che l’estrema destra tuttora deplora: la «tragedia» del disimpegno.

Non occorre essere esperti di guerriglia urbana per capire che entrare a Gaza significava immergersi in una grande palude di sangue da cui sarebbe stato molto difficile uscire. Il governo ha promesso di raggiungere due obiettivi drammatici: «Distruggeremo Hamas» (compresa la morte di Yahya Sinwar e di altri leader) e «riporteremo a casa i rapiti».

La diplomazia, il Qatar, gli Stati uniti, l’Egitto e altri hanno consentito la restituzione di 85 prigionieri. Più di 130 (forse) sono ancora nelle mani di Hamas o di altri gruppi. La distruzione a Gaza è enorme. Israele ha riferito che circa 8000 combattenti di Hamas sono stati uccisi. Fonti palestinesi e internazionali indicano che altri 20000-25000 abitanti, tra cui 8-10000 bambini, sono «vittime collaterali». Migliaia di feriti vengono curati in ospedali mal equipaggiati e con pochi farmaci.

Gli ostaggi sono stati un argomento di discussione centrale in Israele nelle ultime settimane; l’estrema destra insinua, velatamente, che vengano usati come un pretesto dalla sinistra. Netanyahu è ora molto impopolare, viene incolpato del fallimento del 7 ottobre e poi di aver abbandonato gli ostaggi. È chiaro che l’unica possibilità di rivedere vivi questi ultimi è un accordo, ma è altrettanto chiaro che così si creerà un’enorme crisi politica. Si potrebbe arrivare al grande risultato di far cadere il re, la sua famiglia reale e tutta la circostante banda di corrotti, ma la fine del regno potrebbe anche facilitare l’ascesa al potere dell’estrema destra.

Aumenta il coro delle voci che condannano Netanyahu non solo per aver fallito, ma anche perché si piegherebbe alla richiesta Usa di contenere le azioni militari e di arrivare a un accordo sui prigionieri. E tutto questo con un «piccolo» problema, ugualmente centrale in questi giorni: al confine settentrionale di Israele si aggravano gli scontri con Hezbollah, e l’Iran sembra soffiare sul fuoco.

«Fortunatamente» nei prossimi giorni sarà possibile occultare le discussioni sul bilancio, la possibile crisi economica e il continuo saccheggio dei beni pubblici perpetrato da una banda di ministri corrotti: a favore dei settori ultrareligiosi ma soprattutto dei progetti di esproprio e colonizzazione portati avanti dall’estrema destra.

Con o senza Netanyahu, i prossimi giorni vedranno proseguire una storia tragica che sembra allontanarsi sempre di più da possibili trattative di pace. Il regno dell’odio e il desiderio di vendetta da entrambe le parti sono l’elemento più forte che dominerà il futuro prossimo. L’estremismo più sanguinario da entrambe le parti continuerà ad accompagnarci nelle prossime settimane.