Nell’inferno del Cpr è mancato il controllo della prefettura
Il Centro di permanenza per i rimpatri di Milano ha riaperto nel settembre 2020 e da allora è stato assegnato a tre diverse società. A controllare che gli enti gestori dei Cpr eseguano correttamente e completamente il contratto di appalto sono le prefetture.
Nel caso della Martinina srl che gestiva il centro di via Corelli a Milano fino al sequestro dei magistrati, la gara è stata aggiudicata a un prezzo di 42.18 euro al giorno per ogni trattenuto, oltre a 132,60 euro per il kit vestiario. In totale sono stati stimati costi per oltre quattro milioni di euro. Dalle indagini della procura di Milano emerge non solo che la Martinina non ha correttamente fornito i servizi previsti dall’appalto, arrivando a distribuire cibo scaduto e privando di servizi medici e igienici le persone costrette rimanere per molti mesi nel centro di via Corelli, ma anche che ha partecipato alla gara di appalto falsificando protocolli e accordi necessari alla gestione della struttura e alla fornitura dei servizi proposti nell’offerta tecnica.
I servizi non c’erano e non avrebbero potuto mai esserci.
In questo contesto la prefettura di Milano, nonostante le numerose denunce e segnalazioni da parte di diverse associazioni e anche dopo l’ispezione effettuata il 2 dicembre dalla Guardia di Finanza, ha dichiarato di aver sempre svolto ispezioni e monitoraggi approfonditi e applicato anche sanzioni. Non solo, alla scadenza del contratto di appalto, la prefettura ha scelto di non indire una nuova gara ma di rinnovare la gestione della Martinina per un altro anno.
Le condizioni orribili che stanno venendo fuori dalle indagini sul Cpr milanese, però, non sono isolate. Rappresentano un dato di sistema per questi centri di detenzione amministrativa dei migranti.
I Cpr sono strutture pubbliche dove le persone vengono trattenute in attesa che le autorità italiane organizzino il rimpatrio verso il paese di origine. Non si sa se o quando esso verrà effettivamente eseguito, intanto però si è costretti ad attendere in condizione di detenzione, di privazione della libertà personale. Tutti questi luoghi sono gestiti da enti privati che, attraverso una gara di appalto indetta dalla prefettura, si aggiudicano la gestione della vita delle persone. La gara di appalto si basa sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, questo significa che chi offre un prezzo minore vince la gestione del centro per dodici mesi. Con tale sistema, in sostanza, l’ente gestore aumenta il suo margine di guadagno se riesce a minimizzare le spese di gestione e quindi le spese per il cibo, le medicine e il cibo da distribuire alle persone detenute. Perciò quanto avvenuto a Milano non è un’eccezione.
Da sempre le persone detenute nei diversi Cpr denunciano con tutte le modalità possibili l’assenza totale di servizi, le condizioni disumane, la sistematica violazione dei diritti umani. I gesti di autolesionismo, le rivolte, gli incendi e le proteste sono all’ordine del giorno in tutti i centri di detenzione, non sono gesti di disperazione ma richieste di aiuto, riconoscimento, dignità. Lo testimoniano i tanti video che in questi anni sono venuti fuori da questi luoghi di segregazione.
Le indagini della procura di Milano si basano su fatti noti alle cronache, pubblici da molto tempo e che accomunano tutti i centri di permanenza per il rimpatrio. Non tanto per le contraddizioni di una gestione privata della detenzione o per l’assenza dei controlli, ma perché una privazione della libertà personale senza un reato è un’eccezione ai principi fondamentali di uno stato di diritto e una rinuncia agli stessi.
La detenzione amministrativa però, in linea con le politiche europee e con le ultime riforme del governo Meloni, da eccezione è diventata lo strumento ordinario di gestione dei flussi migratori. I termini massimi di detenzione sono stati prolungati fino a 18 mesi e adesso grazie all’accordo con l’Albania si sta tentando persino di portare i centri all’estero. Nonostante questo modello abbia già fallito in patria.
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