Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma qualcuno è più uguale degli altri. A questa conclusione orwelliana, ad un tempo amara e realistica, si giunge dopo la lettura di Anche i ricchi rubano (Edizioni Gruppo Abele, pp. 189, euro 14), preziosa ricognizione nell’ordinamento giuridico italiano ad opera di Elisa Pazé, magistrata in servizio alla Procura di Torino.

L’autrice, che nel suo lavoro quotidiano si occupa di reati economici, non appartiene alla schiera dei pubblici ministeri in cerca di visibilità mediatica e consenso popolare, ma a quella degli operatori del diritto il cui rigore professionale fa il paio con l’esercizio del pensiero critico. Il suo debito nei confronti «del magistero di Luciano Gallino», dichiarato nella premessa del volume, ne è testimonianza non smentita dai capitoli successivi.

SCRITTO CON PRECISIONE ma senza eccesso di specialismi, anzi con un apprezzabile sforzo di chiarificazione dei passaggi più ostici per i non addetti ai lavori, il testo illustra tutte le difficoltà che concretamente esistono nel fare giustizia dei reati commessi dalle classi dominanti, a fronte del populismo penale che invece colpisce senza pietà gli illeciti dei poveri, la cosiddetta microcriminalità. Evasione fiscale, bancarotta, aggiotaggio, corruzione, lottizzazioni edilizie abusive, incidenti sul lavoro, adulterazioni alimentari, rapporti fra politica e mafia: il catalogo è lungo e variegato, perché molteplici sono le situazioni nelle quali chi ha denaro e potere ne abusa ai danni della collettività o di soggetti socialmente più indifesi.

La legge, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, dovrebbe essere a particolare tutela di questi ultimi, ma spesso non è così, nemmeno quando le norme esistono. Anche perché queste ultime, a volte, sono scritte talmente male da rendere difficile e controversa la loro applicazione – come ad esempio nel caso del nuovo reato di inquinamento ambientale.

L’ORDINAMENTO GIURIDICO è figlio della società di cui è espressione. «Nelle società di capitalismo avanzato – argomenta Pazé – c’è una tolleranza ideologica per certi reati, giustificati con la necessità di non inceppare l’economia». A ciò contribuisce anche la maggioranza dei mezzi di informazione mainstream: a fronte della grancassa sulla cronaca nera, «dedicano spazi marginali a morti e infortuni sul lavoro, distorcendo in tal modo la percezione della criminalità».

E così muta la considerazione di cosa sia la «sicurezza», che ormai evoca, nel senso comune, la pubblica sicurezza e non più la sicurezza sociale, la protezione dell’incolumità personale e non più il diritto a un’esistenza libera e dignitosa grazie a un lavoro stabile e a un welfare efficiente.

La profondità teorico-critica e l’orizzonte culturale trasformativo mettono questo libro al riparo dal rischio di confondersi con altre voci del mondo giudiziario italiano che calcano le scene mediatiche autorappresentandosi come la salvezza della patria contro «i politici» indistintamente corrotti.

CIÒ NON TOGLIE che anche nelle pagine di Pazé si trovi una rigorosa – e sacrosanta – rivendicazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura come condizione necessaria, anche se non sufficiente, dell’uguaglianza dei cittadini. Uguaglianza che sarebbe ulteriormente compromessa dalla rimozione dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla separazione delle carriere fra pm e giudici, progetti che tornano periodicamente in auge quando, come di questi tempi con il «caso Palamara», la magistratura, o per meglio dire una parte di essa, dà cattiva prova di sé.