A vent’anni dall’11 settembre del 2001 analisi e dibattiti hanno occupato le pagine dei giornali e i minutaggi di radio e tv: com’è cambiato il mondo, cosa resta del 9/11. Tra i temi meno affrontati c’è la revisione profonda dei concetti di sicurezza e di terrorismo, categorie trasfigurate nella giustificazione per ridurre lo spazio dei diritti e i confini della legge internazionale e per ampliare il controllo sociale di pezzi di società considerati nemici.

E poi c’è il tema, stringente, della trasformazione dei servizi di intelligence internazionali, degli strumenti utilizzati per garantire «sicurezza» e combattere «il terrore»: tecnologie pervasive per il controllo sociale, extraordinary rendition, leggi liberticide (dal Patrioct Act americano all’uso capillare dello «stato di emergenza») è molto di quello che resta dell’11 settembre. È in questo mega contenitore che rimangono intrappolati i detenuti di Guantanamo (779 dall’apertura nel 2002, 39 ancora detenuti).

ALLE LORO STORIE, in particolare a quelle dei prigionieri di origine yemenita, è dedicato Lettere da Guantanamo (Castelvecchi, pp. 96, euro 13,50. E in edicola con Left) di Laura Silvia Battaglia, giornalista e documentarista, conduttrice di Radio3Mondo. Il libro è un viaggio dentro un’anomalia giuridica, luogo fantasma, mostro legale reso possibile da uno dei primi casi contemporanei di esternalizzazione delle frontiere. Guantanamo è un super carcere costruito al di fuori del territorio statunitense e destinato esclusivamente ai sospettati di terrorismo e di appartenenza ad al Qaeda, catturati in Asia, rinchiusi in centri segreti della Cia e poi deportati con la prospettiva mai concretizzata di un processo equo o almeno di accuse certe.

Battaglia dà la parola ad alcuni di loro, liberati dopo anni di torture e abusi, un rilascio che però è solo apparente: trasferiti in paesi alleati degli Stati Uniti di cui non parlano la lingua e non conoscono la cultura, impossibilitati a tornare a casa, persone come Faiz Ahmad Yahia Suleiman in Sardegna o Hussein Salem Mohammad al-Merfedy in Slovacchia conducono oggi una vita in celle senza sbarre, in cui ricostruirsi un’esistenza è utopia.

DECINE quelli ancora detenuti, stretti nell’ennesimo girone di un limbo infinito, ovvero le promesse di chiusura di Guantamano da parte dei presidenti democratici post-Bush jr (prima Obama, ora Biden): promesse mai mantenute. Per loro parlano le famiglie. L’autrice le incontra, si fa guidare in vite sfigurate dalle decisioni di figli o fratelli, spesso loro stesse oggetto di persecuzioni da parte delle autorità yemenite.

L’11 settembre non è mai finito. Esaltato con conflitti brutali che hanno devastato Afghanistan e Iraq e che colpiscono, centellinando gli attacchi, l’intera regione con guerre a distanza, l’attentato alle Torri Gemelle ha dato il via libera alla demolizione, pezzo dopo pezzo, di ogni garanzia legale e del muro – già scalfito – del diritto internazionale. Le storie di singoli uomini, fatti scomparire dentro la zona grigia di Guantanamo, spogliati di diritti e dignità è forse il modo migliore per ricordarne l’esistenza e «quel che resta» del 9/11.