«Nella non-città di Gerusalemme l’occupazione si è fatta pratica burocratica»
Palestina/Israele Intervista a Meir Margalit, ex consigliere comunale e fondatore del comitato contro la demolizioni di case palestinesi Icahd: «Questa realtà sparirebbe senza un esercito di funzionari che ogni giorno si incaricano di reprimere il palestinese. Una cultura dell’obbedienza che nasce con il servizio militare»
Palestina/Israele Intervista a Meir Margalit, ex consigliere comunale e fondatore del comitato contro la demolizioni di case palestinesi Icahd: «Questa realtà sparirebbe senza un esercito di funzionari che ogni giorno si incaricano di reprimere il palestinese. Una cultura dell’obbedienza che nasce con il servizio militare»
Meir Margalit non è un osservatore qualsiasi delle trasformazioni vissute da Gerusalemme negli ultimi decenni. Ebreo israeliano nato in Argentina, dal 1998 al 2014 è stato membro del consiglio comunale per il partito della sinistra sionista Meretz. Tra i fondatori dell’associazione Icahd, il comitato contro la demolizione delle case palestinesi da parte delle autorità israeliane, nel libro Gerusalemme la città impossibile (Edizioni Terra Santa) ha raccontato quella che lui chiama una non-città, modello di una diseguaglianza istituzionalizzata.
Com’è cambiata Gerusalemme in questi ultimi decenni?
È cambiata in peggio per la congiunzione di tre elementi pericolosi: Trump e la pressione dell’evangelismo fondamentalista; il governo Netanyahu e la pressione dei piccoli partiti di destra che vogliono dimostrare di essere più nazionalisti di lui; e l’amministrazione del sindaco nazionalista religioso Moshe Leon. Tre elementi che hanno portato l’umiliazione dei palestinesi a livelli mai visti prima. Per questo una simile esplosione era solo una questione di tempo: i palestinesi non solo sono stati colpiti profondamente dalla pandemia dal punto di vista economico e sociale perché molti di loro lavoravano nel settore turistico, nei ristoranti e negli hotel e hanno perso una fonte di sostentamento che non hanno recuperato, ma anche perché da anni vivono un’umiliazione senza precedenti. In questi ultimi mesi, inoltre i coloni stanno compiendo un enorme uno sforzo di occupazione delle case palestinesi prima che l’amministrazione Biden si organizzi in merito. Uno sforzo colossale a Sheikh Jarrah, Silwan, in città vecchia. Sono convinti che le cose cambieranno a breve, per questo usano una violenza mai vista prima.
Nel suo libro lei descrive la politica israeliana a Gerusalemme come un intreccio di micropoteri, di burocrati e funzionari anonimi, e come laboratorio sociale di controllo.
Questa occupazione non avrebbe potuto concretizzarsi senza un esercito di funzionari che quotidianamente si incaricano di reprimere il palestinese, per spingerlo a lasciare la città e spostarsi in Cisgiordania e dunque rafforzare la maggioranza ebraica. Molti di questi funzionari non sono persone cattive, molti votano anche a sinistra, ma la dinamica è questa: nell’orario di lavoro ubbidiscono alle direttive politiche, un’obbedienza che l’impiegato impara negli anni del servizio militare: fai quello che ti dicono. Poi spostano questa cultura sul posto di lavoro. Così, in ogni ufficio pubblico statale e municipale, tutti lavorano per la destra. E visto che sono anni che la destra è al governo, o è la destra che sceglie tra i suoi i dirigenti o sono gli stessi impiegati che si spostano a destra per salire di livello. È una forma molto brutale, ma silenziosa: nessuno dice all’impiegato di maltrattare il palestinese, ma l’impiegato sa che è questo che vuole il governo o il sindaco.
Così succedono cose come quelle viste questa settimana: la polizia ha impedito ai palestinesi di sedersi sulle scale di fronte alla Porta di Damasco. Non perché qualcuno gli abbia ordinato di farlo, ma perché i poliziotti sanno che è quello che il ministero della sicurezza interna si aspetta. Ciò si traduce in delle situazioni paradossali.
L’occupazione miliare a Gerusalemme assume diverse forme, amministrativa, culturale, politica, architettonica. È possibile parlare di due città, una israeliana e una palestinese?
Gerusalemme è una non-città, perché una città ha bisogno di un denominatore comune tra i suoi abitanti, che qui non esiste. Ci sono tre città: una palestinese, una laica ebraica e una religiosa ebraica. Sono pianeti distinti: ci sono contatti perché alcuni palestinesi lavorano nella parte ovest, ma non ci sono relazioni umane. La guerra è continua e i periodi di tranquillità tra una battaglia e un’altra sono effimeri perché l’occupazione continua a esistere. Sugli israeliani questo ha un effetto: se un paese vive così per più di 70 anni, la gente si evolve nella violenza. Si disumanizza. Per questo gli israeliani sono indifferenti alla sofferenza palestinese: la violenza si è normalizzata, naturalizzata. E per questo la destra è così forte in Israele. Ci servirebbe un vaccino contro la militarizzazione o una terapia psichiatrica per tutti noi israeliani. Di certo senza la comunità internazionale non usciremo da questo pantano.
Se Gerusalemme è un modello di quello che avviene nel resto della Palestina, qual è la soluzione? C’è chi parla di superare la soluzione di due Stati a favore di uno Stato unico, democratico e laico
Gerusalemme è il microcosmo del conflitto in tutto il Medio Oriente. Io considero la fine dell’occupazione la soluzione dei due Stati l’unica possibile. Gran parte della sinistra è frustrata e ha già sollevato la bandiera bianca di fronte alla realtà, io cerco di mantenermi presente in questa lotta. Se mi si chiede cos’è la mia utopia, certo, è uno Stato unico democratico e laico per tutti. Ma oggi penso sia più reale pensare a una divisione in due Stati indipendenti. E magari in futuro pensare a una confederazione. Gerusalemme potrebbe convertirsi in un micromodello di città unificata ma divisa in due capitali: ovest capitale israeliana, est capitale palestinese, aperte e congiunte. Un micromodello complesso e unico al mondo, una divisione funzionale e non territoriale, sarebbe folle pensare di tracciare una frontiera divisa da un muro.
Tornando a questi giorni, con le tensioni che si sono allargate a Gaza, cosa si aspetta? Un ritorno a un’occupazione più silenziosa o uno scontro visibile?
Non so dire cosa accadrà domani. Quello che mi preoccupa è che in questo momento sul lato israeliano c’è uno scontro tra leadership machiste che di certo aiuta Netanyahu a reagire in maniera più violenta; e sul lato palestinese il rinvio delle elezioni ha prodotto un clima di ulteriore divisione, con Hamas che può mostrarsi come il solo in grado di lottare per Gerusalemme, dando ai partiti di ultradestra israeliana maggiore spazio di azione. A meno che la comunità internazionale intervenga e dica «enough is enough». Senza un intervento esterno, europeo, americano, se dovesse dipendere solo da Israele l’occupazione non terminerà mai.
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