Accademie per arrampicatrici sociali che devono essere in grado di recitare l’Eugenio Oneghin di Puškin davanti a «sponsor» o «Forbes» – lèggi miliardari in cerca di amanti da mantenere – interessati alla letteratura, biker nazionalisti, sette del potenziale umano, eurasiatisti, mafiosi in tute da ginnastica stirate alla perfezione che si improvvisano cineasti riscrivendo il neorealismo a suon di mitragliate e minacce.

IL CAST DEL LIBRO di Peter Pomerantsev è troppo strampalato per non essere vero. Ma del resto Niente è vero, tutto è possibile (minimum fax, pp. 314, euro 17, traduzione di Fabrizio Coppola) nella «dittatura postmoderna» del Presidente. Quando i fatti perdono rilievo e si piegano allo storytelling, non ci si può permettere di trascurare le pubbliche relazioni: «il nuovo Cremlino non avrebbe commesso gli errori del passato sovietico: non avrebbe mai permesso che la televisione diventasse noiosa». La tv è l’unico mezzo in grado di unire un paese che copre un sesto delle terre emerse e ha nove fusi orari diversi, e al centro dei mezzi di informazione campeggia lui, il Presidente. Questa bizzarra saldatura di conservatorismo, liberismo e nazionalismo è impersonata dal suo torso nudo ritratto a cavallo in una battuta di caccia e costruita giorno per giorno proprio dalle televisioni di Ostankino.

Un «signor nessuno, un poliziotto grigio» che diventa d’incanto un supereroe capace di interpretare il ruolo di padre, amante, zar, spia uscita da un film di James Bond, grande uomo d’affari. Se un terzo dei maschi russi ha visitato le patrie prigioni e i criminali sono gli uomini più rispettati del paese, allora Putin dovrà essere ripreso mentre da capotavola e capobastone rimette in riga i suoi governatori, come Marlon Brando nel Padrino o Lucy Liu in Kill Bill. Se in Occidente gli uomini politici si affannano per mantenere un’aura di rispettabilità e l’industria dello spettacolo invece è ossessionata dalla malavita, in Russia accade il contrario: i politici interpretano spesso con fin troppa aderenza il ruolo di boss, mentre al cinema e in tv si vedono solo commediole sdolcinate e le canzoni cantate ai matrimoni sono la variante transiberiana dei nostri neomelodici.

POMERANTSEV, figlio di esuli sovietici e cresciuto a Londra, ritorna in Russia nei primi anni Zero e da documentarista è subito cooptato nella macchina del consenso televisivo, con un osservatorio privilegiato sul fiume di denaro che d’improvviso invade una porzione ridottissima di fortunati ex sovietici, che dal nulla iniziano a comprare squadre di calcio inglesi e di baseball americane, gallerie d’arte e aziende elettriche occidentali.
Più che a 1984 di Orwell per leggere la presente distopia russa bisogna pensare a Brave New World di Aldous Huxley. Se il dissenso è schiacciato o permesso solo come specchietto per le allodole, se il 95% dei processi finisce in condanna, la parola d’ordine del nuovo regime più che manette o contrasto alla dilagante corruzione è «stabilità», scandita e ripetuta come un mantra dai media diventa la cifra sotto cui leggere anni che di stabile hanno ben poco.
Mosca è una Gotham City che divora se stessa, dove la palla da demolizione è sempre al lavoro e gli edifici storici non possono essere lasciati incustoditi perché altrimenti potrebbero soffrire di autocombustione spontanea e la polizia chiuderebbe entrambi gli occhi, e magari dopo qualche settimana, senza colpo ferire, ci spunterebbe sopra l’ennesimo grattacielo sconclusionato. Orfani della propria storia e potendo scegliere solo fra una gamma di tiranni, i russi televotano Stalin come connazionale più importante di sempre e i vertici televisivi sono costretti a correre al riparo dopando i risultati ed eleggendo in sua vece Nevskij, un cavaliere medievale noto più che altro per aver represso nel sangue i principi russi riottosi al sovrano mongolo.

IL PUBBLICO TELEVISIVO non vuole caucasici ma solo «russi bianchi», e la marginalizzata generazione post-sovietica dell’Asia centrale si lascia ammaliare dal wahabismo. «Vedove nere» si fanno esplodere negli aeroporti, in volo, ai concerti rock, sui treni, in metro o alle stazioni degli autobus. Il teatro di guerra ceceno arriva a Mosca nella crisi del teatro Dubrovka, una strage in cui perdono la vita 130 civili e 39 terroristi, ma miracolosamente Putin mantiene intatta la sua reputazione di uomo d’ordine. Tutto viene rimasticato e addomesticato in un perenne show televisivo, il conflitto si sposta in una psicosfera collettiva in cui le narrazioni influenzano e allestiscono quotidianamente la realtà. La Russia è «l’avanguardia geopolitica del XXI secolo», un coacervo incoerente capace di offrire un ventaglio di posizioni in cui tutto l’occidente possa rispecchiarsi: ai bacchettoni occidentali piacerà l’infaticabile lotta all’omosessualità e a qualsiasi tipo di devianza, ai sinistrorsi il contrasto all’egemonia occidentale, ai sovranisti l’antieuropeismo. Pomerantsev ha descritto mirabilmente quest’onnipervasività sinistra della comunicazione russa, un nuovo modello di info-wars che ormai ha da tempo varcato i confini dell’ex Urss e risucchiato perfino le voci controcorrente dentro il suo flusso inesausto.