Nella democrazia degli avvocati, appesi a un timbro postale
Trump: «Andremo fino alla Corte suprema» Ora a sfidarsi saranno i poderosi team legali creati dai due candidati ancora prima di iniziare le rispettive campagne. Con The Donald un terreno che dovrebbe essere rara emergenza è diventato norma
Trump: «Andremo fino alla Corte suprema» Ora a sfidarsi saranno i poderosi team legali creati dai due candidati ancora prima di iniziare le rispettive campagne. Con The Donald un terreno che dovrebbe essere rara emergenza è diventato norma
«Andremo fino alla Corte suprema», quando Donald Trump lo dice sono da poco passate le due del mattino a Washington. Poche cose erano state più annunciate.
Il presidente prenderà al volo il red mirage, il miraggio rosso-repubblicano che gli assegna un’inevitabile e temporanea maggioranza nella conta dei voti ai seggi, e prima che arrivi il blue shift (l’altrettanto inevitabile onda blu-democratico che viene da 100 milioni di voti postali) annuncerà di aver vinto, che è in corso una frode e che la sventerà in tribunale.
L’AVEVA DETTO un milione di volte. Ora l’ha fatto. E ha spostato la democrazia rappresentativa su un terreno che dovrebbe essere rara emergenza ma ora è diventato norma.
Benvenuti nella democrazia degli avvocati.
È l’ultima evoluzione di una comunità che non ha mai sentito il bisogno di dotarsi di decenti strutture elettorali o di decenti leggi sul voto. Le strutture sono quanto di più obsoleto esista nel paese che ha inventato la modernità, le norme di riferimento sono peggio – il testo principale è una cosa del XVII secolo di incredibile vaghezza. Ognuno ha i suoi pesi e contrappesi, in Italia il reciproco controllo ha prodotto il bicameralismo, negli Stati uniti ha surgelato il processo elettorale a forme preistoriche.
Prima ancora che un singolo voto fosse deposto in un’urna, sia il campo repubblicano che quello democratico si erano dotati di poderose strutture legali perché «ogni voto sia espresso e conteggiato», come recitavano le rispettive ipocrite formulazioni.
SVEGLIANDOSI TARDI, Joe Biden ha annunciato la sua task force legal-elettorale alla fine di settembre. La campagna di «protezione del voto» è stata guidata dalla general counsel della campagna, Donna Ramus, e dal vecchio marpione Bob Baurer, già general counsel di entrambe le campagne di Obama. Comprende «migliaia di avvocati», alcuni pagati e gran parte volontari, coordinati dal prestigioso studio legale di fede democratica Perkins & Coie, diretto dall’avvocato Marc Elias. Questa task force ha lanciato un blitz pre-elettorale sfidando in tribunale le norme riduttive del voto in molti stati.
Ma è al suo interno che Biden ha stanziato i suoi ninja elettorali. Si chiamano Special litigation unit, un piccolo esercito con due generali, Walter Dellinger e Donald Verrilli: il primo è professore emerito alla Duke University, il secondo legale di punta dello studio Munger Toller & Olson. Entrambi sono stati general solicitors, avvocati dello stato con Clinton e con Obama.
Da parte repubblicana, la macchina legale si è mossa molto prima, come una parte fondante della campagna. Per la verità la prima mossa è di vent’anni fa: tre degli avvocati che patrocinarono Bush contro Gore nello stralunato caso di Florida 2000, quando il massimo tribunale del paese consegnò stato e presidenza all’uomo con meno voti, sono oggi giudici della Corte suprema. Si tratta del giudice capo John Roberts, di Brett Kavanaugh e del recentissimo ultimo acquisto dei nove supergiudici, Amy Coney Barrett.
A CAPO DEL LEGAL TEAM elettorale di Trump, non ha caso, c’è l’uomo che ha ricostruito in senso conservatore la Corte suprema. Si chiama Leonard Leo, laurea alla Cornell, cattolico, sette figli, cavaliere di Malta, una casa da tre milioni e mezzo di dollari comprata due anni fa nel Maine. Leo è l’uomo che ha selezionato e fatto nominare ben cinque giudici supremi: Roberts, Alito, Gorsuch, Kavanaugh e Barrett. Fresco di scuola di legge, ha iniziato carriera facendo l’assistente del giudice supremo Clarence Thomas – assistente di Thomas era anche l’altro superavvocato di Trump, William S. Consovoy, quello che proteggeva le sue dichiarazioni fiscali. Leo è un alto dirigente della Federalist Society, che oggi comprende oltre 70mila giudici, avvocati e docenti, tutti fedeli conservatori, che è la principale macchina per la produzione di giudici degli Stati uniti – segnala i nomi giusti per i posti che si rendono liberi. Ed è anche membro dell’opaco Bh Group, che ufficialmente gli paga lo stipendio ma di cui in sostanza è il socio principale e l’uomo di collegamento con i poteri conservatori americani.
Il Bh group è una lobby fatta di un solo uomo. E il Republican National Committee lo ha finanziato con di 20 milioni di dollari – ma Leo è uno dei massimi specialisti del dark money, il denaro anonimo che viene da società senza fini di lucro. Montagne di dark money (una stima prudentissima è di 80 milioni di dollari) si sono riversate sulla squadra legale di Trump – stimata in ventimila legali tra pagati e volontari – producendo raffiche di ricorsi contro le leggi per la partecipazione al voto e la creazione di gruppi di pressione (la Honest Election Project che contesta gli elettori democratici ovunque, o il discutibile database di frodi elettorali della Heritage Foundation).
ORA TOCCA AI VOTI già espressi. In Florida 2000 il pretesto repubblicano si chiamava hanging chad, il coriandolo penzolante che a volte restava attaccato alla scheda dopo la punzonatura. In Pennsylvania, Wisconsin, Michigan e dovunque i repubblicani decideranno di dare battaglia, si chiamerà postmark, timbro postale: sarà leggibile? E perfettamente? E quanto perfettamente?
Benvenuti nella democrazia degli avvocati.
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