Nel suo «Campo di battaglia» Gianni Amelio schiera conflitti morali
Venezia 81 Il regista torna con un film ambientato sul finire della prima guerra mondiale, con protagonisti Alessandro Borghi e Federica Rosellini. Presentato in concorso
Venezia 81 Il regista torna con un film ambientato sul finire della prima guerra mondiale, con protagonisti Alessandro Borghi e Federica Rosellini. Presentato in concorso
Gianni Amelio dedica Campo di Battaglia all’insensatezza della guerra, alla caducità del genere umano e alla sua inutile sofferenza. Un trittico laico osserva con un certo distacco gli eventi, il tragico scenario della prima guerra mondiale arrivata alla fine, tre protagonisti segnati dalla loro provenienza di classe che hanno il potere di intervenire pesantemente sul destino degli altri come lo farebbero in tempo di pace. Già compagni della facoltà di medicina, affettuosamente legati tra di loro, hanno ereditato caratteristiche delle rispettive famiglie borghesi o aristocratiche, indossano abiti impeccabili da generazioni che contrastano con le bende insanguinate, portano alle estreme conseguenze il loro retaggio.
Sono i due ufficiali medici, Giulio (Gabriel Montesi), figlio ancora più intransigente dell’altrettanto rigido notabile e Stefano (Alessandro Borghi) scienziato umanista dallo sguardo febbrile sovraccarico di immaginazione. E Anna (Federica Rossellini) crocerossina che, promettente studentessa mal sopportata in una facoltà tutta maschile poi abbandonata per dissesti familiari che le hanno lasciato una amarezza senza fine. Giulio avanza nell’ospedale tra i feriti rimandandone in trincea il più alto numero possibile, vigile accusatore dei traditori della patria che si infliggono mutilazioni per farsi congedare.
COME OMBRE che tornano ad annunciare la vanità delle cose terrene, come personaggi provenienti dalla Classe morta di Kantor o dalle fila dei militi di Kurosawa, i nostri soldatini mostrano vicende di guerra che mai avrebbero raccontato al loro ritorno a casa, con brandelli di corpo lasciati sul campo. Ti fissano seri, con lo sguardo delle foto fatte indossando la divisa nello studio del fotografo prima di partire e da lasciare in ricordo, spesso unica prova della loro esistenza in vita per le generazioni a venire. Uno sguardo serio che contrasta con quello sperduto e disperato dei feriti nella corsia di ospedale.
E in queste come in ogni scena che entra nel profondo dell’umanità, Amelio è maestro. La differenza di classe è la netta linea di separazione del film, risolta attraverso i diversi dialetti delle regioni italiane, incomprensibili ai medici, neanche tanto interessati a capire, mentre è evidente che «tra di loro i soldati si capiscono». A ondate il film riporta quel senso di impotenza di fronte al disastro della guerra, un dovere a cui non ci si può sottrarre. Mentre Giulio rimanda al fronte tutti quelli che ancora respirano, con le ferite ancora da rimarginare, considerandoli responsabili di una possibile sconfitta, Stefano trova senza darlo a vedere soluzioni per renderli del tutto inabili a combattere. Anna lascia che gli eventi procedano, si pone nel suo distacco e apparente partecipazione come una feroce nemesi.
Il massacro della guerra si allarga poi all’epidemia di spagnola che di vittime ne fece ancora di più del conflitto mentre ai giornali le autorità imponevano il silenzio così come i bollettini ufficiali erano state le uniche comunicazioni sulle fasi della guerra.
ANCORA DI PIÙ in questo passaggio il film si fa riflessione morale, con quell’esercito di ombre che avanza e apre tutto un varco nella materia controversa che è stata per il nostro cinema la prima guerra, uno scarso numero di opere, tra retorica e divieti. Il film è stato tutto girato nei luoghi dove si è combattuta la guerra, Udine, Tolmezzo, Gorizia, villa Manin a Codroipo come quartier generale a far riconoscere precisamente le campagne, dove combatté la generazione di fine Ottocento, in contrasto con il racconto che procede per astrazioni, lasciando tracce profonde.
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