L’astensione viaggia ormai spedita verso percentuali tunisine. Quelle che rispecchiano il giudizio popolare su quanto viene ritenuto una vera e propria messa in scena. Seguono, come da consolidato copione, formali condoglianze per la morte della partecipazione e altrettanto dovuti propositi di resuscitarne il cadavere. Ma i vertici della politica, di fronte a una tendenza di lunga durata, sanno ormai che non si tratta più da un pezzo di una risposta occasionale alla miseria dell’offerta politica, neanche più dell’insofferenza di un diffuso umore “qualunquista”, ma di un riassestamento strutturale del sistema rappresentativo entro i suoi limiti oggettivi e soggettivi. E, in fondo, gli va bene così.

Un elettorato ristretto semplifica molte cose e rende più prevedibile e libera da interferenze la partita tra poteri e interessi, almeno sul piano nazionale. A questo scacchiere ristretto e umanamente spopolato le forze politiche si vanno rapidamente adattando, procedendo alla ridefinizione delle proprie tattiche e linee di azione. Per la destra è questo il terreno più propizio immaginabile a quella commistione, solo apparentemente contronatura, tra corporativismo e dottrina neoliberista su cui punta tutte le sue carte. Per la sinistra una spiegazione di comodo del suo declino e ingrediente indispensabile alla retorica della riscossa.

La guerra in corso, vissuta come affare di cancellerie e di equilibri geopolitici che sovrastano, inscalfibili e situati a distanze siderali, le opinioni e le preoccupazioni dei cittadini, (malgrado le pesanti ricadute sulla vita sociale e sulle condizioni materiali), alimenta fortemente il senso di impotenza, la distanza tra governanti e governati, tra politica e società, e assesta un colpo decisivo alla rappresentanza.

La crescita dell’astensione non è certo un fenomeno che riguardi solo l’Italia. Le elezioni berlinesi di domenica scorsa indicano la medesima tendenza: affermazione della destra, astensionismo di massa. I Grünen, che hanno subito solo una lievissima flessione percentuale, hanno probabilmente pagato molto di più in termini di astensione la difesa dell’ampliamento della miniera di lignite a Lützerath contro il tenace movimento che vi si opponeva.

Nei grandi paesi europei la sfiducia nei confronti delle forze politiche e nel sistema della rappresentanza si riversa in poderosi movimenti di lotta che danno del filo da torcere ai governi e alle loro scelte politiche. In Francia milioni di persone scioperano e manifestano ripetutamente contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. Nel Regno unito una possente ondata di scioperi per l’aumento dei salari falcidiati dall’inflazione paralizza interi settori: dai trasporti, alla scuola, alla pubblica amministrazione, alla sanità. A Madrid si manifesta in massa a difesa della sanità pubblica contro il governo conservatore della regione e i suoi disegni di privatizzazione. In Germania, oltre allo sciopero delle Poste un esteso movimento prende di mira la politica governativa dei Verdi e le sue deroghe, motivate dalla guerra, alla tabella di marcia della riconversione ecologica. Se pure queste lotte non dovessero conseguire i risultati voluti o assestare una scossa importante ai governi in carica, esse dimostrano comunque una reattività sociale e politica che non passa attraverso le urne, ma può esercitare un potere condizionante ben maggiore di una debole e verbosa opposizione parlamentare.

Di tutto questo nel nostro paese non vi è neanche l’ombra. I livelli salariali sono tra i più miserabili d’Europa, le pensioni sono al palo, l’inflazione morde, gli ammortizzatori sociali cadono a partire dal reddito di cittadinanza, la rinascita della sanità, enfaticamente promessa in tempo di pandemia, non è più neppure all’orizzonte, il fisco continua a favorire i redditi più alti, la scuola è presa in ostaggio dall’ideologia più retriva e classista che si potesse immaginare.

Eppure, malgrado tutto questo, non si registra nessuna significativa reazione conflittuale. Chi vota a destra si aspetta l’intervento salvifico di un governo forte. Chi vota a sinistra cerca di coprire le spalle a una disastrosa ritirata. Ma chi diserta le urne (una cospicua maggioranza), e perfino chi lo fa con una decisa motivazione politica, non scende in piazza, non anima movimenti di lotta nelle scuole o nei posti di lavoro, come invece avviene negli altri paesi europei.

Questa diffusa apatia è oggi un tratto distintivo dell’Italia, dove la sconfitta dei movimenti di lotta è stata più bruciante perché più grandi e radicali erano stati i desideri di cambiamento che avevano veicolato. Si possono cercare molte diverse spiegazioni, ma comunque è da questa stasi che bisogna partire. Con l’auspicio che il “partito dell’astensione” cessi di essere un partito che si esprime per sottrazione, trasformandosi in un movimento che si manifesta nel conflitto.