La vicenda narrata è una, terribile e devastante anche a tanti anni dai fatti, ma le storie che evocano le pagine del romanzo Quei bravi ragazzi del Circeo di Massimo Lugli e Antonio Del Greco (Newton Compton, pp. 286, euro 12, 90) sono almeno due.

PRIMA DI TUTTO c’è quello che si è iscritto nella memoria collettiva come il «massacro del Circeo», lo stupro e le torture inflitte a due ragazze, rispettivamente di 19 e 17 anni, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, e che causarono la morte della prima, in una villa del litorale romano del Circeo di proprietà della famiglia di uno dei responsabili tra il 29 e il 30 settembre del 1975. Poi ci sono loro, Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, tutti intorno ai vent’anni, i tre neofascisti che di quel crimine orrendo si resero artefici. E, intorno alle loro biografie e alle loro tragiche gesta, l’immagine di quella «Roma nera», i cui rampolli crescevano nel culto della violenza, e nella sostanziale impunità, lasciando dietro di sé una spaventosa scia di sangue.

Dando forma narrativa agli avvenimenti, pur muovendo dagli elementi accertati sia dalla giustizia che emersi anche in seguito nelle inchieste giornalistiche, i due autori seguono le traiettorie dei protagonisti anche negli anni successivi alla tragedia e, soprattutto, propongono ai lettori una riflessione intorno ad una delle vicende che più ha colpito l’opinione pubblica nazionale, e non solo in quel periodo.

Da un lato c’è il riconoscimento per la battaglia che Donatella Colasanti, scomparsa nel 2005, non smise mai di condurre dopo di allora. Fu anche grazie al suo impegno, sottolineano Lugli e Del Greco, «oltre allo scandalo suscitato da alcune affermazioni della difesa (che cercò di addossare alle vittime una parte della responsabilità dell’accaduto, ndr), a far sì che il 15 febbraio del 1996 la normativa venisse finalmente cambiata e la violenza sessuale – considerato ancora come un delitto contro la morale pubblica – entrasse a pieno titolo nel novero dei reati contro la persona».

DALL’ALTRO, le intuizioni romanzesche, i nomi di finzione attribuiti ai personaggi, l’aver rivisto almeno in parte la cronologia dei fatti realmente accaduti, non allontanano il libro dal contesto nel quale la vicenda ebbe luogo. Perché, come ha insegnato la memoria del femminismo, la violenza di genere e lo stupro riguardano l’intero universo maschile, quella tragedia si consumò in un ambiente ben preciso.

Anche attraverso le indagini che nel romanzo conduce Fortunato Achei, un funzionario della Mobile spedito a dirigere l’ordine pubblico in una stagione di scontri pressoché quotidiani tra «rossi» e «neri», Lugli e Del Greco raccontano il mondo dell’estrema destra, le piazze dei giovani ricchi e annoiati di Roma Nord, pronti ad usare la pistola contro gli avversari politici come a sfogare la loro violenza contro chi non considerano neppure una persona.

Un grumo di odio, allevato all’ombra del potere e del denaro, come nel caso delle famiglie di Guido, Izzo e Ghira, che riempiva le sezioni del Movimento sociale italiano e le bande che attraverso le porte girevoli di quei luoghi di lì a pochi anni si sarebbero trasformate nei Nar e nel cosiddetto spontaneismo armato. I «bravi ragazzi del Circeo» non erano solo dei «mostri» come avrebbe detto in seguito Donatella Colasanti, erano per molti versi i testimoni selvaggi di un mondo che si considerava al di sopra di tutto e di tutti e per cui la vita umana non aveva alcuna valore. Figuriamoci quella di due ragazze di periferia.