Cultura

Nel guado dei sentimenti, lo specchio di un intero Paese

Nel guado dei sentimenti, lo specchio di un intero PaeseUn’immagine da «In mezzo scorre il fiume», diretto da Robert Redford nel 1992 e tratto dall’omonimo romanzo di Norman Maclean

La raccolta «Al fiume», i testi di 25 scrittori statunitensi intorno alla pesca, per Jimenez. Come uno scatto rubato ad un album di famiglia, intorno alla pesca si sviluppa un racconto di sé come di un’intera società. Consapevoli o meno si sia del fatto che, come scriveva Thoreau: «Molti uomini vanno a pesca per tutta una vita senza sapere che quello che cercano veramente non sono i pesci».

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 23 luglio 2022

«Ma sapevo che una storia era cominciata, forse molto tempo prima, vicino al rumore dell’acqua. E sentivo che più avanti avrei incontrato qualcosa che non si sarebbe mai eroso, e che ci sarebbe stata una curva brusca, cerchi profondi, un deposito, e la quiete». Quando nel 1976 la casa editrice dell’Università di Chicago decise di dare alle stampe A River Runs Through It (In mezzo scorre il fiume, Adelphi) di Norman Maclean, l’eccezione suscitò un ampio interesse, anche se i giurati del Pulitzer gli avrebbero preferito Il dono di Humboldt di Saul Bellow, autore che del resto quello stesso anno si sarebbe aggiudicato anche il Nobel per la letteratura.

EPPURE, ERA LA PRIMA VOLTA che il celebre ateneo dell’Illinois, noto soprattutto per i suoi studi sociologici, pubblicava un romanzo. E non una qualsiasi opera di finzione, ma una sorta di testamento spirituale, ispirato a detta dello stesso autore all’«amore per la mia famiglia», di uno dei decani della Facoltà di inglese che aveva passato i precedenti quarantacinque anni ad insegnare l’opera di William Shakespeare.

In quel libro straordinario, poi portato sul grande schermo nel 1992 da Robert Redford in un film interpretato da Brad Pitt e Craig Sheffer, Maclean, al suo esordio narrativo a settantaquattro anni, dava corpo con tenerezza ai propri ricordi d’infanzia nel Montana dei primi decenni del Novecento, ricostruendo un intero universo di sentimenti e affetti attraverso quello che per la sua famiglia era l’autentico «rito» della pesca alla mosca lungo le rive del Big Blackfoot River. Il fiume, e soprattutto la pesca, sono infatti il solo «territorio» nel quale il linguaggio dei Maclean trova fino in fondo la via del cuore.

Ma, come aveva già indicato, ricorrendo anche all’ironia e al paradosso, alla fine degli anni Sessanta Richard Brautigan, autore a suo modo vicino alla Beat Generation, con Pesca alla trota in America (Einaudi), c’è nell’evocazione di una wilderness nella quale immergersi con galosce che sfiorano l’inguine qualcosa in grado di cogliere e restituire anche lo state of mind dell’intero sogno americano.

Una sensazione ora rafforzata dalla bella raccolta Al fiume (pp. 204, euro 18) che per i tipi dell’editore romano Jimenez, che opera una costante e preziosa opera di monitoraggio del panorama narrativo e culturale statunitense, propone venticinque racconti intorno alla pesca di altrettanti autori americani.

Tutti scrittori che, come spiega David Joy, autore del noir ambientato tra gli Appalachi Queste montagne bruciano (Jimenez, 2022) e curatore del volume insieme a Eric Rickstad, «sono convinti che non c’è niente che valga quanto quello che si impara frequentando l’acqua».

QUANTO ALLE FORME che questa «frequentazione» può assumere vanno dalle «tenebre e l’oscurità» racchiuse nelle acque della Georgia che ricorda Taylor Brown, all’infanzia «a metà tra Huckleberry Finn e Fern Hill (dal titolo di una poesia di Dylan Thomas, ndr)» evocata da Ron Rash, dalle «ragazze triglia» della Carolina del Nord di cui parla Jill McCorkle, al Wampus, «un enorme pesce gatto nero» emerso nello stagno dietro al fienile della località del Kentucky dove è nato e cresciuto J. Todd Scott.

FIUMI, STAGNI, LAGHI, qualcuno si spinge anche fino al mare, il tutto lungo una geografia incerta che predilige il profondo Sud ma è capace di arrivare alla Pennsylvania passando magari per il Wyoming, per valli e montagne. Una narrazione a tappe, condotta all’ombra della memoria famigliare, di gesti e abitudini tramandati da una generazione all’altra, ma anche come ritorno sul luogo del delitto, come sguardo intriso del dolore della perdita, come misura di tutto che abbiamo lasciato alle nostre spalle lungo l’incedere contraddittorio delle nostre vite. Visto che, suggerisce Silas House, «la vita è lo scarto tra la gioia e la tristezza che provo ogni volta che torno qui, nel mio posto preferito al mondo»: il lago Dale Hollow, lungo il confine tra Kentucky e Tennessee.

Ma, nell’apparente intimità dello sguardo, emerge anche l’immagine di un mondo di contrasti e rappresentazioni, spesso, fuorvianti. Lo sa bene Chris Offutt che osserva i «turisti di natura» che sciamano da metropoli e periferie verso le destinazioni rurali vestendo «nello stesso modo in cui conciano la gente di campagna nei film». Come uno scatto rubato ad un album di famiglia, intorno alla pesca si sviluppa un racconto di sé come di un’intera società. Consapevoli o meno si sia del fatto che, come scriveva Thoreau: «Molti uomini vanno a pesca per tutta una vita senza sapere che quello che cercano veramente non sono i pesci».

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