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Al via il gioco americano dello “smerdatutto”

«Adesso si gioca a smerdatutto», dice Luther (Clint Eastwood). Celebre battuta, nella parte finale di Potere assoluto, un film sulla Washington degli intrighi loschi, della corruzione e dei ricatti, la […]

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 11 ottobre 2016

«Adesso si gioca a smerdatutto», dice Luther (Clint Eastwood). Celebre battuta, nella parte finale di Potere assoluto, un film sulla Washington degli intrighi loschi, della corruzione e dei ricatti, la capitale che molti americani considerano una sorta di Sodoma e Gomorra.

Da abbattere. Molto più che antipolitica. È forse un caso se Clint Eastwood appoggia Trump?

Anche a lui, come ai tanti altri americani che lo sostengono, appare come una sorta di Luther. The Donald è il giustiziere, il vendicatore di «Joe», l’americano bianco medio, il little guy, il piccolo uomo che ce l’ha con la politica, odia la famelica capitale federale che s’arricchisce impoverendo i già poveri bianchi, detesta Barack Obama, l’africano americano che gioca a golf e mangia sano, ha la nausea dei democratici che coccolano le minoranze e se ne fregano di lui, odia Hillary Clinton, massimo emblema ai suoi occhi del potere corrotto.

L’applauso più sentito, Donald Trump l’ha riscosso quando ha detto che, se eletto presidente, nominerà un procuratore per indagare sulla rivale che «dovrebbe essere in prigione».

Nel dibattito a St. Louis The Donald non poteva che fare se stesso al massimo grado, punteggiando i suoi lunatici interventi di frasi che sanno colpire bene l’audience che lui coccola, in un’esibizione di macho che non si pente delle battutacce da spogliatoio, perché così fan tutti. In sala quattro donne che hanno accusato Bill in passato di molestie. Trump le avrebbe volute addirittura nello spazio riservato ai suoi familiari, perché Hillary le avesse di fronte e perché, poi, a fine serata, s’avvicinassero a Bill, per stringergli la mano. Trump l’aveva premeditata, la sua performance senza freni.

Così è riuscito nell’intento di consegnare alla storia il più degradante dibattito presidenziale. Aveva un’alternativa? No, un personaggio che è arrivato dove è arrivato, cioè vicinissimo alla Casa Bianca, lo deve proprio al suo stile dirompente, senza freni, che sfida continuamente la legge di gravità della politica. Lo stile che gli ha fatto guadagnare le simpatie dei tanti Joe che ancora compongono il corpaccione del ceto medio bianco americano, lavoratori che si sentono senza futuro e messi ai margini dai «nuovi» americani, gli stessi che, in combutta con i bianchi liberal, hanno reso possibile, infatti, l’elezione del primo presidente nero.

Nel mese che resta, fino al voto, Trump non potrà che martellare sugli stessi tasti, e con più veemenza, sapendo che lo zoccolo duro del suo elettorato lo sosterrà fino alla fine. Ha voglia, quest’elettorato, di godersi lo spettacolo fino all’ultimo, e Trump non lo deluderà.

Ma non gli basteranno quei voti, per vincere. E alzando l’asticella dello scontro con Hillary rimarrà sempre più solo. Solo contro un establishment repubblicano che non ha alcuna intenzione di essere trascinato nel gorgo della sconfitta. L’inasprimento dei toni e dello scontro farà sì che l’elettorato moderato conservatore resterà a casa. Un’astensione che renderà più facile il compito di Hillary. E che produrrà come effetto collaterale la sconfitta di molti candidati repubblicani al Congresso. Che così finirà in mano ai democratici.

Per questo l’ipotesi di un ritiro forzato di Trump resta in piedi nei piani di diversi esponenti repubblicani. Ma ormai non ci sono più i tempi tecnici perché Trump – pure volesse, e non vuole – si ritiri. Impossibile allestire ora una campagna presidenziale diversa. Certo, si è parlato molto della sua sostituzione con Mike Pence, il suo vice nel ticket. Non avverrà, mentre potrebbe accadere il contrario. Cioè che sia Pence a gettare la spugna. Anche lui. Come i tanti che stanno lasciando la barca del tycoon: candidati al senato e alla camera, raccoglitori di fondi, portaborse, tutti terrorizzati dalla prospettiva di una catastrofe che investirebbe fatalmente anche le altre corse elettorali l’8 novembre. Una valanga che metterebbe fuori gioco per un tempo indefinito il Partito repubblicano, aprendo la strada a una «permanent democratic majority». Il rovesciamento esatto della situazione attuale.

Ecco perché la resa dei conti nel Partito repubblicano non aspetta il 9 novembre per esplodere. Il Grand Old Party è già in preda alla guerra civile. E il gioco a smerdatutto di Trump non è solo diretto contro Hillary, minaccia direttamente i possibili disertori del suo campo. Kellyanne Conway, manager della campagna di Donald Trump, ha detto in tv che diversi dei parlamentari repubblicani che lasciano la nave di The Donald «molestano sessualmente le donne in Campidoglio», che alcuni di loro sono noti perché «si strusciano contro le ragazze» e «senza invito infilano le loro lingue nella gola delle donne».

Ci si può indignare. Stupire. Ma resta la domanda. Perché? E la risposta l’ha data Hillary Clinton nel finale. Queste elezioni sono diventare «così conflittuali, così intense perché c’è molto in palio. Non sono tempi ordinari. E queste non sono elezioni ordinarie. Stiamo per scegliere un presidente che fisserà la politica non per i prossimi quattro o otto anni» sono «elezioni dalle conseguenze più rilevanti che abbiamo mai avuto».

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