Ho la guerra in faccia. Quella dell’ultimo inviato che ho conosciuto. Mi dice di parlare più forte perché da quell’orecchio non sente più, per una granata che gli è scoppiata a Baghuz, Siria, l’ultima roccaforte dell’Isis.

Anche un occhio, per la stessa granata, non è messo bene: «Mi sembra di vederti – dice mettendo una mano sull’occhio destro – come frantumato in mille pixel».

Ma l’altro occhio, quello buono, e soprattutto il terzo, quello dentro l’anima, ci vede benissimo. Si chiama Gabriele Micalizzi e per tre mesi ha mandato a La7 gli unici reportage al mondo da Mariupol e dal Donbass.

COME QUALUNQUE vecchio cronista in disarmo cerco di rubargli delle informazioni. Niente da fare. È più furbo di me. Ma vengo travolto dalle emozioni, le sue, che sono attuali, e le mie, che sono i ricordi dell’Oltrepò, dell’infanzia e di altre guerre.

Perché Gabriele ha cominciato lì, a Pianello Valtidone, con Andy Rocchelli, terra di partigiani e giornalisti. Erano insieme in società. Amici per la pelle. La Corte d’Assise, come sapete, ha assolto il soldato ucraino Vitaly Markiv, condannato in primo grado per la morte di Rocchelli, ucciso a 30 anni mentre documentava il conflitto in Donbass.

Gabriele Micalizzi

Gabriele, come Andy. è andato dal lato “sbagliato” della storia, quello che qui non si vuole mai sentire. «Questa guerra non è come la raccontano, è più complessa, più sfumata: i russi a Mariupol sono entrati sparando ma anche portando aiuti e spegnendo gli incendi: se racconti questo ti dicono che sei filo-Putin, preda della propaganda di Mosca: racconto soltanto con la mia telecamera quello che vedo e poi che ognuno la pensi come vuole».

MICALIZZI NON TI DICE che cosa è giusto o sbagliato. «Non c’è il giusto o lo sbagliato, c’è la cruda realtà dei fatti e dei numeri». Ti riporta con i piedi per terra. Entro con lui nel teatro di Mariupol. Vedo nelle sue immagini le colonne sbreccate, l’intonaco già depositato per terra che nei suoi fotogrammi galleggia ancora nell’aria.

Non è un miracolo, è l’orrore della guerra. Lui ci restituisce questo: il fumo, la nebbia impenetrabile che esplode nei muri, la polvere che precipita e i cadaveri che ci compaiono davanti come manichini. Il respiro strozzato in gola dalla paura. Le immagini sono a colori, a tutto mi sembra in bianco e nero.

Oppure di un grigio indecifrabile. L’umanità crea da sempre l’arte ma allo stesso tempo anche la fine dell’uomo: l’inviato di guerra vede mille cadaveri che sono anche il suo cadavere, quello dei suoi antenati e dei suoi figli.

«A BAGHUZ NON VEDEVO più nulla, pensavo che sarei rimasto cieco, ma cercavo in tasca le sigarette, non riuscivo a muovere le dita, che ancora adesso non si piegano, tentavo di afferrare il pacchetto ma mi scivolava sempre di mano, ero furibondo, non volevo morire senza fumare l’ultima sigaretta».

Vietato fumare? Già questo è lo spartiacque tra la vita e la morte: non vogliamo radiografie polmonari ma una pietosa complicità. Fino all’ultimo ironico respiro.

Fuori dal teatro di Mariupol i russi bombardano a più non posso. Gabriele cerca i cadaveri. Li conta, si informa, fino all’ultimo, quanti potrebbero essere: duecento, seicento? Riprende con la telecamera le bombe inesplose, cammina su brandelli di corpi, cerca, esplora.

Potrebbe non uscire mai più da lì sotto. Bastano l’onda d’urto di una bomba, le schegge di una granata e tutto intorno crolla, diventando l’ultimo posto che hai visto nella tua vita. Come è accaduto a Andy, in un colpo secco. Ma lui, Gabriele, va avanti. Dieci, venti, trenta cadaveri: corpi di sconosciuti dove cerchi una traccia, dei brandelli di verità.

SPERO, MENTRE RACCONTA, che Gabriele mi porti fuori presto da questa buca di Mariupol dove mi ha portato, come ha condotto tutti noi in questi mesi con i suoi reportage. Ma non è finita. Mi prende per mano a guardare l’orizzonte dove ci sono altri cadaveri.

Me li mostra ma mi fa vedere anche i vivi, che tagliano legna, fanno bollire pentole di zuppa, donne e uomini che camminano sulle macerie delle loro case, che piangono e imprecano.

O soltanto, con una lucidità a noi sconosciuta, raccontano la realtà del momento senza versare una lacrima.

GABRIELE MI FA CAPIRE che qui non ci sono vincitori e vinti. Ma non vuole essere banale, tenta di spiegarmi le cose. L’altro ieri è venuto via da Mariupol dove spazzavano i cadaveri per la strade e gli ucraini residenti rabberciavano reti elettriche e telefoniche, sotto paga (e ordine) dei russi.

Mi racconta la sfilata del 9 maggio tra le strade della città dove i russi erano riusciti a trovare un angolo quasi intatto di Mariupol: «Cercavo di inquadrare una visuale della città distrutta e non ci riuscivo: sembrava una scenografia quasi intatta, surreale». La realtà si negava, ostinatamente, anche all’occhio elettronico di Gabriele. Siamo comunque esseri fallibili che cercano quello che non trovano.

La verità, come diceva De André, è che a volte andiamo in direzione ostinata e contraria. Ma adesso c’è un treno che parte, abbiamo appena il tempo di raccontarci mille altre cose, di ricordare mille altre persone, e anche qualche minuto di commozione ricordando i morti di questo mestiere.

Ma Gabriele è anche una vecchia canaglia. L’ultimo bicchiere ed è già ora di andare. Ciao, ciao.