Economia

Nel Def dei miracoli si torna a privatizzare

Nel Def dei miracoli si torna a privatizzareI vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini

La Scommessa della Crescita Finalmente pubblico e in parlamento il documento Nel 2020 e 2021 restano le clausole di salvaguardia. Per riuscire nell’impresa di diminuire il debito mentre si aumenta il deficit torna la vecchia ricetta dei governi Pd: la dismissione del patrimonio pubblico per ben 10 miliardi

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 6 ottobre 2018

Centotrentotto pagina attese per oltre una settimana. Come un libro giallo, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza ha dentro più di una sorpresa, mentre si spera che non porti alla scomparsa del suo estensore, di certo meno saldo in sella soprattutto dopo la magra figura europea fatta da un ministro che fino a due settimane fa aveva promesso un deficit all’1,6 per cento nel 2019 e invece ora scrive alla commissione di Bruxelles per chiedere «dialogo» sullo sforamento al 2,4.

GIOVANNI TRIA TENTA una difficile quadratura del cerchio puntando tutto su crescita e investimenti. Ma per ottenere il vero miracolo economico – diminuire il rapporto debito/pil mentre si aumenta il deficit – torna alla vecchia ricetta dei suoi predecessori: le privatizzazioni. Una contraddizione lampante per un governo che ha già annunciato la nazionalizzazione di Autostrade e di Alitalia, solo per citare i due casi più evidenti di aziende in cui è già stato promesso «l’ingresso dello stato».

L’ALTRA – AMARA – SORPRESA si materializza con la conferma delle clausole di salvaguardia, seppure solo per il 2020 e il 2021. La promessa di liberarsi completamente dal continuo inseguimento per evitare aumenti dell’Iva continuerà, col rischio di trasformarsi in tagli automatici alla spesa pubblica.

LA SCELTA «AMBIZIOSA» di aver fissato l’asticella del pil all’1,2% già quest’anno, all’1,5% l’anno prossimo e poi ancora all’1,6% nel 2020 diventa per Tria obiettivo «realistico» basandosi sulla spinta agli investimenti pubblici e privati che si vuole imprimere con la prossima manovra. Le stime del Pil sono portate a livelli molto distanti rispetto alle previsioni dei principali organismi nazionali e internazionali che stimano un aumento del solo 1 per cento per il 2019. L’accelerazione a cui in pochi credono sarebbe dovuta all’impatto sul pil di tutte le promesse del «cambiamento» – dal reddito di cittadinanza al superamento della Fornero – che viene stimanto nello 0,6 per cento per quanto riguarda il 2019, allo 0,5% nel 2020 e allo 0,3% l’anno successivo. Si punta sul rilancio dei consumi interni, dunque.

MARCIA INDIETRO COMPLETA invece per quanto riguarda le privatizzazioni. Nel biennio 2019-2020 si punta a incassare circa 10 miliardi in modo da usarli per diminuire il rapporto debito/Pil. Ricetta neoliberista per eccelenza, finora non ha portato bene ai governi Pd. Ogni indicazione presente nei Def scritti da Pier Carlo Padoan si è rivelata fallace: dando sempre la colpa ai problemi burocratici per aver raggranellato molto meno nelle casse del Mef.

Confermata la sterilizzazione dell’aumento dell’Iva, totale per il 2019 e parziale per gli anni a venire, coprendoli in parte anche con tagli di spesa che nel 2019 finanzieranno la manovra per circa 3,6 miliardi. Nel 2020 e nel 2021 le clausole ci saranno ancora: saranno ridotte come portata, e questo porterà a un beneficio sul deficit, ma rimarranno. Appare questa una via obbligata perché le risorse per coprire le misure, soprattutto nel 2020 e nel 2021, sono ridotte al lumicino, a causa della riduzione del deficit voluta dallo stesso Tria e accettata da Salvini e Di Maio.

LA MANOVRA 2019 comunque lievita a 40 miliardi, sebbene il Nadef non contenga numeri e poste. Le ultime indiscrezioni parlano di 9 miliardi a disposizione per il reddito di cittadinanza, a cui si aggiunge 1 miliardo per i centri per l’impiego, con le coperture arrivano in parte dall’assorbimento dei fondi già stanziati dal governo Gentiloni per il Reddito di inclusione (Rei). Mentre la pensione di cittadinanza sarà modulata rispetto alla situazione familiare.

Il governo stanzia 7 miliardi per cambiare le regole per andare in pensione: a inizio 2019 verrà introdotta Quota 100, vale a dire l’uscita dal lavoro con un’età minima anagrafica e tot contributi, mix che dovrebbe partire con due paletti: 62 anni di età e 38 anni di contributi, con solo 2 di «figurativi». Ma le ipotesi si accavallano: difficile però che con questa posta possa rientrarvi anche Quota 41 – andare in pensione con 41 anni di contributi a prescindere dall’età – e ancor meno il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita, vero dogma intoccabile per Bce e fautori dell’austerità.

REAZIONI DIVERSIFICATE tra i sindacati. Di «contraddizione evidente» parla Susanna Camusso. «È una manovra che contiene in sé una profonda disuguaglianza perché da un lato propone la bandiera del reddito per chi è in difficoltà ma dall’altro fa una gigantesca redistribuzione verso i ricchi», attacca la leader Cgil. Più attendista Annamaria Furlan della Cisl: «Gli investimenti saranno la cartina di tornasole della manovra». Di «luci e ombre» parla Carmelo Barbagallo (Uil). Tutti però chiedono al governo di confrontarsi. Difficile che così sarà.

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