Robert Adams è il teorico della fotografia americana, colui che ha scritto La bellezza in fotografia, la cui formazione da letterato alla University of Southern California, dove consegue il dottorato in letteratura inglese, e l’appartenenza alla chiesa metodista ne hanno segnato il percorso artistico.

La sua famiglia, credente, con la madre impegnata nel sociale, mentre il padre si occupa della salvaguardia dell’ambiente, ne ha indirizzato gli interessi fin da bambino, quando, insieme alla sorella e al padre, andava a fare i pic nic nel bosco.

Nasce lì la sua sensibilità per la natura, quando usa la fotografia per raccontare l’invasione dell’uomo, le tracce indelebili che deteriorano irrevocabilmente fiumi, laghi, praterie, oceani. I poeti saranno la sua ispirazione costante soprattutto l’inglese John Care e gli americani Wendell Berry, Lorine Niedecker, Theodore Roethke.

LA VITA NOMADE dei suoi genitori dal New Jersey al Colorado, al pari del tempo passato nelle gite outdoor in tenda, determinano una coscienza ambientalista nella fotografia di Adams come il suo omonimo Ansel, attivo nei primi anni del Novecento, cantore della californiana Sierra Nevada.

Tuttavia l’Adams della East coast ha un linguaggio diverso dall’Adams californiano, meno espressionista ma più lirico. Robert Adams è un artista schivo, silenzioso, che non ama la ribalta, appartiene insieme a Lee Friedlander e William Eggleston ai maestri della fotografia americana, che hanno influenzato molti fotografi, anche italiani, come Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Luigi Ghirri, Guido Guidi.

Nel 2022 per la prima volta il lavoro di Robert Adams viene analizzato criticamente da Sarah Greenough, curatrice del dipartimento fotografia della National Gallery of Art di Washington che ha promosso il libro e la mostra American Silence, pubblicato dalla Aperture Foundation.

Il «silenzio americano» bene rappresenta l’indole di Adams che ha sempre realizzato una ricerca profonda basata sul silenzio e l’ascolto, ne è prova il lavoro Listening to the river, una serie di passeggiate fotografiche lungo e attorno ai fiumi e ai torrenti nella periferia di Denver in Colorado.

Il suo contributo ricorda quello del paesaggista Frederick Law Olmsted, progettista del newyorchese Central Park e promotore al Congresso della dichiarazione di Yosemite come bene pubblico e successivamente parco nazionale.

QUEL SUO BIANCO E NERO leggero come le chiome degli alberi che il vento sposta nei cieli tersi infondono un senso di quiete, un attimo prima di una catastrofe imminente o appena essa si è manifestata.

È come se Adams ci dicesse che stiamo continuando a distruggere l’ambiente e l’unico modo che lui ha per farcelo capire sono le fotografie. Il suo contributo ricorda quello del paesaggista Frederick Law Olmsted, progettista del newyorchese Central Park e promotore al Congresso della dichiarazione di Yosemite come bene pubblico e successivamente parco nazionale.

Robert Adams è una sorta di paesaggista dello sguardo che si muove con lentezza, raccontando ogni volta la storia del luogo che abita. A Denver: lo sprawl urbano sregolato ed il rischio nucleare nella produzione dei detonatori in plutonio a Rocky Flats Plant, in California la periferia di Los Angeles, in Oregon la prateria e l’Oceano Pacifico.

Adams «trae la sua profonda ispirazione – scrive Greenough – dalla poesia, poiché il parallelismo tra i versi e la fotografia sono evidenti per lui». Racconta così l’anonimato della quotidianità, quel paesaggio laterale e marginale che costituisce la base dell’America, una attitudine che ha condiviso con gli altri componenti dei New Topographers, impegnati nel tracciare una nuova cartografia visiva.

Così in questa narrazione poetica, sono evidenti le contraddizioni dell’America, tra i segni pop delle gasoline stations, fotografate negli stessi anni sessanta da Ed Ruscha, e delle casette della periferia di Los Angeles a cui si contrappongono il vuoto del deserto del Colorado e le praterie dell’Oregon, in una dimensione fotografica eco consapevole.