«Origin», nel baratro dell’umanità e alle radici del razzismo
Venezia 80 Il film della regista afroamericana Ava DuVernay in concorso. Dal saggio di Isabel Wilkerson, indaga sulle cause della violenza collettiva
Venezia 80 Il film della regista afroamericana Ava DuVernay in concorso. Dal saggio di Isabel Wilkerson, indaga sulle cause della violenza collettiva
È la notte del 26 febbraio 2012 quando il giovane afroamericano Trayvon Benjamin Martin, camminando per le strade di Sanford in Florida, è ucciso da un uomo che pensa di poter sopprimere una vita per il semplice fatto di sentirsene autorizzato da chissà quale autorità e discendenza. Trayvon è al telefono, scherza, ha una busta della spesa in mano e non immagina che quelli saranno gli ultimi minuti della sua permanenza su questa Terra, perché qualcuno ha deciso che è un tipo sospetto. George Zimmerman, l’omicida, non riflette neanche un secondo, non è minimamente sfiorato dal dubbio che l’unico pericolo in quella strada sia proprio lui con la sua pistola e le sue dannate convinzioni. Da questa tragedia ha inizio Origin di Ava DuVernay. Da un episodio che purtroppo non rappresenta qualcosa di inedito e che in seguito sarà drammaticamente ripetuto per chissà quante altre volte da civili e poliziotti, sicuramente non da folli isolati, ma da assassini convinti del loro (inesistente) ruolo di giustizieri. La regista di Selma e del documentario XIII Emendamento, e creatrice della miniserie televisiva When They See Us, porta a termine un altro capitolo della sua personale indagine sulla condizione degli afroamericani, non soffermandosi sulla vicenda di cronaca nera. Allarga lo sguardo attraverso la vera fonte d’ispirazione del film selezionato in Concorso alla Mostra di Venezia. Origin, infatti, dialoga apertamente con il libro di Isabel Wilkerson, Caste: The Origin of Our Discontents, pubblicato nel 2020.
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Alla richiesta di seguire e ricostruire il caso di Trayvon Martin, la scrittrice esita, non è convinta che si possa ridurre la questione al solo razzismo, all’idea che vi sia una teoria fondata sul colore della pelle, sul bianco che odia il nero. Vi deve essere dell’altro e ha bisogno di tempo per dimostrarlo. Ed è così che Wilkerson attende e forse si dimentica del progetto distratta dai suoi affetti e dal dolore. Certe cose non si abbandonano. Dopo un po’, infatti, arriva l’intuizione che finalmente permette di tracciare un percorso che dallo schiavismo americano conduce direttamente nell’India divisa per caste e nella Germania nazista che pianifica lo sterminio degli ebrei (e non solo). Per poi tornare negli Stati uniti, dal segregazionismo agli omicidi dei nostri giorni.
UNO STUDIO ambizioso e insidioso. Perché, se da un lato la questione afroamericana trova dei corrispettivi nel mondo e sfugge alla fatale presa del riduzionismo, dall’altro è proprio la storia con i suoi corsi unici, a rimanere imbrigliata dentro uno schema. E questo aspetto si ripercuote sul film sottraendone originalità e profondità.
NEL RACCONTO, talvolta documentario, compaiono figure leggendarie come quella di August Landmesser, l’operaio tedesco che nel mezzo di una folla ipnotizzata, fu l’unico a non alzare il braccio destro, manifestando in questo modo il totale dissenso contro il regime nazionalsocialista. E poi il filosofo e padre della costituzione indiana, Bhimrao Ambedkar, nato «dalit», appartenente al gruppo degli «intoccabili», cioè di coloro che sono considerati gli ultimi in assoluto, gli oppressi. Dunque, persone che hanno reagito all’intimidazione, che si sono opposti alle pratiche dominanti e alle continue falsificazioni, per essere esempio di tutti, per riconquistare il proprio corpo e riaffermare il diritto inalienabile a esistere liberamente.
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