Il Far West della giustizia Usa
Serie tv Su Netflix «When They See Us» di Ava DuVernay, sull’arbitraria condanna dei «Cinque di Central Park»
Serie tv Su Netflix «When They See Us» di Ava DuVernay, sull’arbitraria condanna dei «Cinque di Central Park»
19 aprile 1989. È l’imbrunire. Nell’aria e nella luce dorata che scalda le facciate di Harlem, già un anticipo dell’estate. Dalle strade intorno alla 125esima torme di ragazzi in corsa confluiscono correndo nel parco. Inizia così, quasi per gioco, con spaziose riprese dall’alto, When They See Us, la nuova miniserie Netflix, diretta da Ava DuVernay, che per la piattaforma di Ted Sarandos aveva già realizzato il documentario XIII emendamento. Mentre il buio inghiotte le zone verdi che fiancheggiano i viali illuminati, un fremito di aggressività si impadronisce della folla di giovani neri e ispanici – ciclisti che vengono buttati giù dalle bici, corridori spintonati e spaventati. Un mix di casualità e non. Arrivano le auto della polizia e, nel fuggi fuggi generale gli agenti catturano una manciata di adolescenti. Sono ancora in centrale, in stato di fermo e mezzi addormentati, alle prime luci dell’alba, quando arriva la notizia: nel cuore del parco è stato ritrovato il corpo in fin di vita di una donna, stuprata, sodomizzata e con la testa fracassata a sassate.
ESPLOSO in una New York dilaniata dalla miseria, dai conflitti socio/razziali e dalla violenza innescati con la brutalità delle politiche economiche reaganiane, il caso della jogger di Central Park rimane uno dei più emblematici di quella decade. Oggi un «errore» giudiziario, a conferma del peggio che si può pensare sulla predisposizione razzista dei dipartimenti di polizia e dei magistrati, allora il riflesso di una Manhattan bianca e privilegiata che viveva nell’incubo della rabbia dei ghetti. Al punto da incarcerare quattro teen-ager afroamericani e un ispanico (il maggiore aveva sedici anni) innocenti, grazie a video-confessioni estorte illegalmente, a un procuratore senza scrupoli e a dei famigliari marginalizzati e intimiditi da un sistema da cui non immaginavano nemmeno di poter/dover essere rappresentati anche loro.
«Ridateci la pena di morte. Ridateci la nostra polizia», dicevano quell’estate, in un’atmosfera da circo, gli annunci a tutta pagina acquistati sui quattro quotidiani della città da un palazzinaro miliardario di nome Donald Trump. Mai uno che si tira indietro quando si tratta di cavalcare odio e divisioni, l’attuale presidente Usa, in numerose apparizioni televisive, e nei suoi disgustosi annunci, figura con prominenza in When They See Us. L’ombra del presente strega la ricostruzione del caso nella serie, come lo studio del razzismo nel sistema giudiziario americano che DuVernay aveva fatto in XIII emendamento. Il quarto, e ultimo, episodio è infatti dedicato a Korey Wise, sedicenne al momento dell’arresto e quindi chiuso non in riformatorio come gli altri, ma in un carcere per adulti, dove è rimasto per tredici anni.
Nel 2002, un uomo in prigione per omicidio e stupro nello stesso penitenziario di Wise confessò di essere il responsabile dell’attacco alla jogger. Anche il Dna dimostrò che la sua confessione era autentica. Scarcerati e scagionati, l’anno successivo «i cinque di Central Park» (così li avevano battezzati i tabloid), fecero causa alla città. Per dieci anni, il municipio di Michael Bloomberg rifiutò la mediazione finanziaria, che venne invece appoggiata da de Blasio. Nel 2014 ricevettero un indennizzo pari a 41 milioni di dollari.
ISPIRATO dalla tesi di laurea di sua figlia Sarah, che aveva studiato i documenti del caso, The Central Park Five, del documentarista Ken Burns (2013), rimane ad oggi il film più riuscito su questa storia, un testo di chiarezza procedurale quasi inguardabile sulla in-giustizia made in Usa. Rispetto a quello, la serie (fiction) di DuVernay (prodotta anche da Oprah Winfrey e Robert De Niro) è allo stesso tempo più complicata e più grezza. È interessante la scelta di virare il tutto, dal procedural legale, a una dimensione quasi soap, dando ampio spazio alle famiglie dei ragazzi, al loro milieu (proletario o piccolo borghese) e alle relazioni interpersonali.
Ma nemmeno alcune belle interpretazioni e l’occhio raffinato del grande direttore della fotografia afroamericano Bradford Young riesce a mitigare lo schematismo, la rozzezza politica e psicologica, e la prevedibilità di DuVernay, qui sceneggiatrice e regista. Tra «i cattivi» spicca in modo particolare il procuratore Linda Fairstein (l’attrice Felicity Huffman, che a sua volta sta rischiando il carcere per aver pagato in bustarelle l’ammissione della figlia al college), che fece del caso il fiore all’occhiello della sua carriera, contro ogni indizio e procedura immaginabili.
OGGI un’affermata autrice di crime novels, Fairstein è stata scaricata dal suo editore, Penguin Random House, pochi giorni dopo l’arrivo sulla piattaforma di When They See Us. Si sono vergognati della sua versione fiction, come se prima non sapessero chi fosse! Così si fa (la) giustizia nel Far West del moralismo corporate (proteggendo il valore del pacchetto azionario).
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento