Italia

Né cannibali, né mafiosi

Un’aula di tribunale vuota foto di AnsaUn’aula di tribunale vuota – Ansa

Storie Sixco era considerato il «capo dei capi» della mafia nigeriana. Dopo sette anni di trafila giudiziaria, di cui tre in carcere, è stato assolto da ogni accusa. E ora la sua comunità lo premia

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 17 novembre 2023

Lo scorso sabato la sala ricevimenti del circolo Arci Benassi, tra Bologna e San Lazzaro, era riservata a un evento speciale: la prima festa nazionale del Nunai – National Union of Nigerian Associations in Italy – la federazione delle associazioni nigeriane in Italia. I pensionati del luogo, riuniti come d’abitudine al bar del circolo, hanno interrotto le partite di briscola per veder sfilare davanti a sé oltre trecento cittadini nigeriani giunti da ogni angolo del paese in abiti da cerimonia.

L’occasione era la festa d’addio dell’ambasciatore Mfawa Omini Abam, prossimo a lasciare l’incarico. Ma per la comunità nigeriana in Italia l’evento è stato soprattutto un modo di rinsaldare le fila e celebrare se stessa, di fronte ai pregiudizi di cui spesso è vittima.

LA DIASPORA NIGERIANA in Italia è la più popolosa dell’Unione europea, ma con meno di 120mila membri resta comunque molto piccola e marginalizzata. Eppure su di essa sono piovute le accuse più inverosimili. In un libro del 2019 intitolato Mafia Nigeriana. Origini, rituali, crimini la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e lo psichiatra Alessandro Meluzzi accusavano diverse etnie nigeriane di essere dedite a cannibalismo e stregoneria.

L’ex procuratore nazionale antimafia e attuale senatore 5 Stelle Federico Cafiero De Raho ha sostenuto che i nigeriani in Italia abbiano dato vita a una mafia comparabile alla ’ndrangheta. Secondo un pm di Bologna, che aggiunge di non avere prove a riguardo, i mendicanti nigeriani davanti ai supermercati «controllano il territorio» per conto di questa mafia.

Nel corso della festa del Nunai, il presidente del Rowland Ndukuba ha consegnato una trentina di targhe premio ai membri di spicco della comunità.

Tra loro la donna più anziana della diaspora, l’ottantaquattrenne Catherine Iheme. Soprannominata Mama Africa, è arrivata nelle Marche nel 1965, «quando – ricorda – per vedere un’altra persona nera dovevi andare alla basilica di San Pietro». Poi una giovane influencer nota come Uwalars, che produce video informativi per la comunità su una pagina Facebook seguita da quasi centomila persone. E ancora l’ex senatore leghista Toni Iwobi, prima persona nera mai eletta in Senato, premiato in absentia. Non risultano, tra le persone premiate dal Nunai, né stregoni né cannibali.

Blitz dei carabinieri di Napoli contro presunti membri dell’organizzazione Black Axe nel 2011 foto Ansa
Blitz dei carabinieri di Napoli contro presunti membri dell’organizzazione Black Axe nel 2011 foto Ansa

C’È INVECE UN SIGNORE che le autorità italiane hanno a lungo considerato il «capo dei capi» della più temibile associazione mafiosa nigeriana, l’Ascia Nera o Black Axe. È un quarantenne di Benin City, Osahenagharu Uwagboe, tutti lo chiamano Sixco. Per ricevere questo premio è arrivato in macchina da Zevio, paesino della provincia di Verona dove vive da vent’anni e di cui ha preso il forte accento. Nel corso di una trafila giudiziaria durata sette anni – di cui quasi tre trascorsi in carcere da innocente – Sixco non si è sentito appoggiato dalla comunità. Il premio è per lui una riparazione.

Negli anni caldi dei processi di mafia nigeriana la priorità della comunità era evitare lo stigma. Nel 2019 il 5% degli imputati per associazione mafiosa proveniva dallo 0,16% di cittadini nigeriani in Italia. Quando un politico di Benin City accusò le autorità italiane di perseguitare giudizialmente i nigeriani, il Nunai prese le distanze per bocca del responsabile welfare Michael Oputteh: «Le autorità italiane non hanno preso di mira i nigeriani in modo discriminatorio».

DEL RESTO, riconosce Sixco, era difficile credere che nelle accuse mosse contro di lui dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo non ci fosse almeno un fondo di verità: «Hanno detto che prendevo cinquecentomila euro al mese, che lì dentro a Ballarò ho un distretto a luci rosse come ad Amsterdam, che controllo il traffico dei migranti che arrivano in Sicilia, l’è tutto mì!». Un’intercettazione in cui parlava dei nastri trasportatori prodotti dall’azienda in cui ha lavorato come operaio per tutta la sua vita in Italia, ricorda Sixco, è stata travisata per sostenere che si organizzasse il trasporto dei migranti dall’Africa: «Sono matti, matti». L’ha confermato a processo il signor Roberto Battaglino, titolare della ditta di nastri trasportatori, che Sixco non faceva altro che lavorare, anche il sabato e la domenica: «Sarei da condannare anch’io se fosse condannato lui».

L'evento organizzato sabato scorso dal Nunai. Il primo da sinistra è Sixco foto di Lorenzo D’Agostino
L’evento organizzato sabato scorso dal Nunai. Il primo da sinistra è Sixco foto di Lorenzo D’Agostino

Nel poco tempo libero Sixco gestiva un’associazione culturale da lui fondata e regolarmente registrata, la Nbm Izodowa Cultural Heritage. L’associazione, ancora attiva, organizza eventi sociali per la comunità nigeriana a Verona e promuove la cultura panafricanista. Ma a Palermo gli inquirenti sono convinti che l’Nbm, acronimo di Neo-Black Movement, sia in realtà una copertura per il Black Axe, la mafia nigeriana.

La conferma arriva da un nigeriano di nome Austin Johnbull, in carcere a Palermo per tentato omicidio, che consegna agli investigatori un bigliettino con su scritto: «Più importanti Black Axe al Nord Italia». Accanto al nome di Sixco, Johnbull scrive: «Capo dei capi». La polizia lo arresta all’alba del 18 novembre 2016 e lo porta nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, riservato ai mafiosi.

NEI MESI SUCCESSIVI i giornali riportano le rivelazioni di Johnbull. Il Fatto Quotidiano lo chiama «il Buscetta nero» e scrive che il Black Axe compie riti di iniziazione in cui si beve sangue umano. Panorama dice che Sixco è il capo dei Black Cats, fantomatici gatti neri. Ancora lo scorso anno, dopo che due sentenze di Corte d’Assise avevano stabilito che i racconti di Johnbull erano frutto di fantasia, un articolo di Stefano Nazzi sul Post continuava a parlare di Verona come della capitale dell’Ascia Nera, dove si sarebbero svolte cerimonie di affiliazione in cui gli aspiranti «picciotti» recitano oscuri giuramenti all’interno di un perimetro a forma di bara composto da sette candele.

Cerimonie ospitate nella casetta a schiera di Sixco, a Zevio, a cui avrebbero preso parte più di cento persone. «E non v’è chi non veda – ha scritto un giudice di Palermo sopravvalutando la vista del pubblico italiano – come in un siffatto contesto logicamente inverosimile sia la scena descritta dai collaboratori, caratterizzata da un assembramento di numerosissimi soggetti di colore, impegnati in una cerimonia non certo silenziosa o riservata, in parte situati anche fuori dall’abitazione del Sixco e dunque perfettamente visibili a tutti: e ciò, in piena notte, nell’ambito di un piccolo e tranquillo centro abitato, nel quale un tale assembramento non sarebbe certo potuto sfuggire o, persino, costituire fonte di segnalazione alla autorità di polizia».

JOHNBULL, HA CONCLUSO la corte, ha concordato con gli altri «pentiti» una versione da raccontare ai pubblici ministeri, per ottenere i benefici riservati ai collaboratori di giustizia. Perché? Johnbull stesso l’ha raccontato alla moglie, durante i colloqui intercettati nel carcere Pagliarelli: «Dove sono ora è la morte… qui picchiano le persone. Appena gli rispondi male, ti chiamano fuori dalla cella e ti picchiano». La polizia gli ha detto di poterlo aiutare: «Loro cambiano la tua vita e ti sistemano la tua famiglia».

Anche Sixco è stato rinchiuso al Pagliarelli. Per questo, dice, capisce Johnbull: «Uno che entra in carcere a Palermo, è un attimo diventare collaboratore. Le guardie trattano gente come schiavi. Non hai diritti». Assolto da tutte le accuse con una sentenza confermata dalla Cassazione all’inizio di quest’anno, Sixco non prova più rancore per i suoi accusatori: «Hanno istigato queste persone a dire tutto ciò che loro vogliono che dicano. Con la tortura psicologica in galera». Oggi Sixco si prende gli abbracci della sua comunità, si scatta foto con l’ambasciatore. Guarda compiaciuto il suo premio «per i servizi umanitari e il patriottismo». L’incubo è ormai alle sue spalle.

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