Naufragio tra Gibuti e Yemen: 43 morti, oltre 100 i dispersi
Tra Africa e Asia Nel 2018 la rotta del Corno d'Africa è cresciuta del 50%, superando quella mediterranea: 150mila gli africani arrivati in Yemen. Eritrei, somali ed etiopi tentano di raggiungere il ricco Golfo, il 20% sono minori. Ma in tantissimi restano bloccati nella guerra
Tra Africa e Asia Nel 2018 la rotta del Corno d'Africa è cresciuta del 50%, superando quella mediterranea: 150mila gli africani arrivati in Yemen. Eritrei, somali ed etiopi tentano di raggiungere il ricco Golfo, il 20% sono minori. Ma in tantissimi restano bloccati nella guerra
I corpi finora recuperati sono 43, ma i dispersi sono tre volte di più. È il bilancio, tragico, del naufragio di due barche lungo la costa del Gibuti, direzione Yemen. Le due piccole imbarcazioni erano partite martedì mattina da Godoria, costa nord-orientale del piccolo paese sul Corno d’Africa. Dopo appena mezz’ora di viaggio, si sono ribaltate. Cinque corpi sono stati recuperati subito dalla guardia costiera, che ieri ne ha individuati altri 38.
Difficile dire quanti siano i dispersi: secondo uno dei 16 sopravvissuti, un ragazzino di 18 anni, una delle barche portava circa 130 migranti, ma dell’altra non sa fare una stima. «Le ricerche continuano», ha detto ieri la capo missione in Gibuti dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), Lalini Veerassamy.
Non è la prima volta che accade e difficilmente sarà l’ultima, visti i numeri: nel 2018 la rotta del Corno d’Africa è cresciuta del 50% rispetto all’anno precedente e ha superato quella mediterranea. «Si tratta di un’emergenza, un fenomeno migratorio probabilmente molto più grande di altri nel mondo – aveva commentato a inizio gennaio Joel Millman, portavoce dell’Oim – I migranti raggiungono lo Yemen dal Gibuti in viaggi pericolosi nel Golfo di Aden, oggi una delle rotte marittime migranti più utilizzate al mondo».
Erano stati 100mila nel 2017, sono stati 150mila nel 2018 i migranti africani diretti in Yemen. La via d’accesso al ricco mercato delle petromonarchie del Golfo per eritrei, etiopi e somali che si ritrovano però in un paese in guerra e ridotto alla fame prima di riuscire – i pochi che ce la fanno – a raggiungere l’Arabia saudita e lavori sottopagati in condizione di semi-schiavitù.
E così le tratte si sovrappongono: chi fugge dalla guerra yemenita prende il mare verso il Corno d’Africa, chi scappa da conflitti e fame nell’Africa orientale compie il percorso opposto. Un incontro di disperazioni nello stretto di Bab al-Mandab.
Etiopi, somali ed eritrei arrivano in Gibuti a piedi e poi pagano i trafficanti per imbarcarsi in viaggi brevi ma pericolosi: almeno 156 i morti accertati nel 2018, oltre 3.500 in dieci anni, ma i numeri sono considerati estremamente al ribasso per l’assenza di un reale monitoraggio. Non muoiono solo in mare, ma anche durante il viaggio via terra: «Intorno al Lago Assal (al confine tra Etiopia e Gibuti, con i suoi 155 metri sotto il livello del mare è il punto più basso del continente, ndr) si trovano spesso resti umani, scheletri. Sono i resti dei migranti morti di fame e sete».
Chi arriva, si imbarca: il percorso relativamente breve, una ventina di chilometri, costa di meno rispetto al Mediterraneo, 150 dollari. Più costosa la partenza dalla Somalia, 200-250 dollari per un viaggio 15 volte più lungo. In entrambi i casi, che si parta dalla regione di Obock in Gibuti o dalle somale Berbera e Lughaya, l’obiettivo è raggiungere i porti yemeniti di Hodeidah, a ovest, e Aden e al-Mokha, a sud. Si tratta per lo più di giovanissimi, età media sui 25 anni, ma tantissimi sono anche i minori non accompagnati (le stime parlano di un 20% di bambini).
«All’incontro di due continenti, lo Yemen è storicamente un paese di origine, transito e destinazione», spiega l’Oim. E oggi di guerra brutale, da cui è difficile scappare con l’Arabia saudita che serra le frontiere: sarebbero circa 270mila i migranti africani (in molti casi richiedenti asilo) che non terminano il loro viaggio e si ritrovano bloccati in campi yemeniti, nel peggiore dei casi in veri e propri centri di detenzione.
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