Nel 1888, il pittore svizzero Arnold Böcklin dipinse Il centauro nella bottega del maniscalco (oggi esposto al Museo di Belle Arti di Budapest). L’insieme di elementi che convivono nel quadro esercita un potente effetto straniante su chi l’osserva: il realismo con cui è raffigurato il corpo della creatura fantastica, il contrasto tra il riferimento mitologico e la surreale domesticità della situazione (un centauro che indica il proprio zoccolo da ferrare a un maniscalco), gli abiti quotidiani dei personaggi al margine della scena, il paesaggio e gli edifici sullo sfondo.

Lo straniamento prodotto dal quadro è simile a quello provocato dalle storie raccolte nel volume di Primo Levi, Ranocchi sulla luna e altri animali, a cura di Ernesto Ferrero (Einaudi, pp. XXIV-216, euro 19,00). Uno dei racconti emblematici del libro, Quaestio de centauris, ha peraltro come protagonista un personaggio che ha le fattezze e l’atteggiamento del centauro di Böcklin (e, come quello, abita campagne familiari, ricorrendo a un comune maniscalco). Ma l’analogia, per quanto casuale, è complessiva: in entrambe le opere, infatti, gli elementi realistici e quelli meravigliosi sono accostati in una rappresentazione incongrua, eppure a suo modo logica. Solo che, in Quaestio de centauris come nella maggior parte degli scritti nel volume, il paradosso è attraversato da una vena ancora più perturbante.

In effetti, la cordialità quasi infantile del titolo (la luna, i ranocchi) e la vivacità della copertina a colori (tutt’altro che rassicurante, però, a ben guardare i contorni spettrali e le ombre lunghe degli animali disegnati) potrebbero far pensare a una raccolta di divertimenti, estranea ai temi e ai toni delle opere cruciali di Levi. Invece non è così, anche se la scelta di animali, veri o di fantasia, come protagonisti assimila queste storie al genere della favola; un genere che, anche nel Novecento, ha spesso avuto un risvolto allegorico e un intento esemplare. Ma non qui, non propriamente: Levi infatti non vuole istruire rappresentando caratteri, valori o dinamiche storiche attraverso gli animali; esprime piuttosto la «percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un “vizio di forma”».

Sono parole dello scrittore (citate da Ferrero nell’Introduzione) a proposito delle sue Storie naturali (1966); da quel libro sono tratti cinque dei racconti qui ripubblicati; altri provengono da Vizio di forma e Lilít, mentre il testo eponimo si legge tra i Racconti e saggi (’86). Seguono una sezione di elzeviri (da L’altrui mestiere), una d’interviste immaginarie (pubblicate nelle Opere a cura di Belpoliti), una di poesie (per lo più contenute in Ad ora incerta); in appendice, un testo di Darwin (Perché gli animali sono belli?) antologizzato da Levi in La ricerca delle radici. Questo Ranocchi sulla luna e altri animali non è dunque un libro d’autore, né offre testi inediti; ma l’insieme, grazie specialmente alla sezione dei racconti, tiene quasi perfettamente, dando corpo a una visione inquietante del rapporto tra naturale e umano, poco nota a molti lettori di Primo Levi, eppure profondamente legata ai campi principali della sua esperienza: da un lato la formazione e il mestiere di scienziato; dall’altro il Lager e la violenza imposta e subita in nome di una superiorità o purezza etnica e genetica.

Chi legge nei racconti di Levi un capitolo meno teso e drammatico della sua opera ha un’occasione per ricredersi: perché alcune delle narrazioni qui riunite proiettano il tema della disumanizzazione, cruciale in Se questo è un uomo, contro uno sfondo distopico e mitico, non del tutto separato dalla storia ma reso invincibile dal legame profondo con una vicenda biologica (e perciò senza scampo). Come se le ‘smagliature’, i ‘vizi di forma’ che corrompono l’ordine civile esprimessero la vera natura delle cose e dei rapporti fra i viventi. È vero che in certi racconti la relazione tra uomo e natura si polarizza, concentrando sul primo la responsabilità della manipolazione e della trasgressione delle leggi ecologiche; accade in Pieno impiego, in cui si racconta di squadre d’insetti e di anguille addestrate a compiere attività tipicamente umane come la costruzione di microcomponenti per apparecchiature tecnologiche, o come il trasposto di eroina. Nella maggior parte dei casi, però, il tema dominante è una contro-biologia impura e deformante che accomuna tutte le specie in uno stato di catastrofe fredda e amorale. In L’amico dell’uomo, ad esempio, l’indifferenza verso il male viene raccontata per mezzo di un rovesciamento di prospettiva; l’uomo è un semidio ostile, la vittima è la creatura microscopica ma intelligente che lo abita: la tenia, che il narratore immagina dotata della miracolosa e a lungo insospettata capacità di ‘scrivere’ attraverso la disposizione delle proprie cellule epiteliali – versi e componimenti anche in lode dell’ospite umano. Il racconto illustra come l’uomo possa diventare l’altro, l’assoluto quando ignora l’ecosistema culturale ed emotivo delle creature che giudica ora insignificanti, ora nocive, ma sempre e comunque estranee. Quelle creature tuttavia sono intimamente connesse all’umanità, sono abitanti dello stesso Umwelt, come ricorda la solenne invocazione della tenia: «che questo mio messaggio ti raggiunga, e venga da te meditato e inteso. Da te, uomo ipocrita, mio simile e mio fratello». È indubbiamente umoristica l’attribuzione al parassita di una citazione da Baudelaire (Au lecteur: « – Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!»); ma è anche il segno che esprime e rivendica paradossalmente l’appartenenza del reietto alla medesima civiltà dell’eletto.

In Versamina, dove il nesso con la guerra e la storia è esplicito, il sovvertimento della capacità di provare dolore e piacere suscita un fascino scandaloso. La scoperta di un farmaco che converte la sofferenza in gioia, infatti, da un lato genera il timore di infrangere un tabù («il dolore non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano»); dall’altro esercita attrazione, desiderio di oltrepassare i limiti della conoscenza (come nel mito dell’Ulisse dantesco, che aveva aiutato Levi a conservare identità e memoria nel campo di sterminio) e insieme di tacitare il dolore non fisico dell’assenza, del vuoto, del fallimento irreparabile che grava sui personaggi di questo e degli altri racconti.

Una forma di attrazione ancora più morbosa è quella tra l’uomo e la misteriosa creatura-feticcio di Vilmy, allo stesso tempo prigioniera e dominatrice; basta assaggiare il latte dell’animale per diventare schiavi di un desiderio inesauribile e senza possibilità di soddisfazione, che rende l’uomo e l’esemplare di «vilmy» vittima l’uno dell’altro e reciprocamente dipendenti da un rapporto di costrizione e ricatto in cui umanità e bestialità appaiono condizioni relative e reversibili.

La tensione può smorzarsi a volte nell’esercizio cosmicomico, anche condotto allusivamente come in Il fabbro di se stesso, dedicato non a caso a Italo Calvino (del resto, l’appropriazione di forme e modi letterari, rifatti ora sui generi della storiografia o della cronaca, ora su modelli più recenti, è qui un segno della qualità e dell’intenzionalità dello stile di Levi, testimone sì ma anche scrittore in senso pieno). La cifra del libro resta però affidata al tema della natura deformata, rispetto alla quale l’umanizzazione dell’animale e la disumanizzazione dell’uomo appaiono minacciosamente seducenti e complementari.