Nato e Usa: «L’Alleanza ha il diritto di allargarsi a Est»
Guerre fredde Scontro al summit con la Russia sul pericoloso ingresso dell’Ucraina, ma «serve il dialogo». Mosca accusata di schierare truppe, ma gli alleati di 30 Paesi sono lungo i confini russi
Guerre fredde Scontro al summit con la Russia sul pericoloso ingresso dell’Ucraina, ma «serve il dialogo». Mosca accusata di schierare truppe, ma gli alleati di 30 Paesi sono lungo i confini russi
Nessuno al vertice di Bruxelles del Consiglio Nato-Russia ha ottenuto quello che chiedeva. Non i russi, per i quali l’unico esito accettabile passa per le «garanzie legali» che il Cremlino ha chiesto sullo stop all’espansione della Nato. Né tanto meno i paesi dell’Alleanza atlantica, interessati a impegni concreti sulla crisi in Ucraina.
«Non siamo disposti a compromettere principi chiave come il diritto alla difesa reciproca», ha detto il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, che ha ribadito l’idea di base secondo cui «ogni singolo paese ha il diritto di scegliere la sua strada». La stessa posizione della vicesegretaria di Stato americano, Wendy Sherman.
POCO IMPORTA, QUINDI, che quella strada attraversi, com’è accaduto in più occasioni dal 1991 in avanti, le «linee rosse» marcate dal presidente russo, Vladimir Putin. La sua tesi è chiara. Trent’anni fa la Nato aveva sedici elementi. Oggi sono trenta. Molti di loro appartenevano al Patto di Varsavia, il che ha ridotto la profondità strategica della Russia. L’adesione dell’Ucraina, l’ultima nazione in ordine di tempo ad avere intrapreso il percorso, sarebbe una minaccia esistenziale.
L’ingresso nella Nato avrebbe dovuto condurre, peraltro, i nuovi soci a una nuova fase sul piano democratico. La tesi affronta oggi parecchi limiti. In Polonia si alternano da trent’anni governi atlantisti, e lo dimostra il numero di militari americani di stanza nel paese, salito nel 2020 a 5.500, ma in tema di indipendenza delle istituzioni, di diritti civili e persino i diritti umani i problemi sono cresciuti, anziché diminuire, e hanno portato a un confronto aspro con Bruxelles.
Lo stesso vale per vicini dell’Europa centrale e dell’area baltica. L’Ucraina, al centro del dibattito, vale un discorso a parte. La rivolta del 2014 culminata con la fuga dell’ex presidente Viktor Yanukovich non è stata seguita da alcun progresso sociale, nonostante il sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Oggi la rivolta può essere considerata soltanto come un episodio, per quanto cruento, nello scontro di potere fra clan rivali che si combatte nei palazzi di Kiev dalla fine dell’Unione sovietica.
L’ULTIMA PROVA È nella battaglia legale che coinvolge un altro ex presidente, Petro Poroshenko, salito al potere dopo Yanukovich, nel 2014, è sconfitto alle elezioni del 2019 da Volodymyr Zelensky. Contro Poroshenko è stata aperta un’indagine per tradimento.
Lui si trova da mesi all’estero. Ha fatto sapere che tornerà in patria lunedì con un volo da Varsavia. Rischia quindici anni di carcere. Agli arresti domiciliari già si trova il leader di opposizione Viktor Medvedchuk. Uno stato delle cose molto simile a quello osservato proprio durante il mandato di Yanukovich, quando in prigione era finita Yulia Timoshenko.
IL GOVERNO UCRAINO considera l’ingresso nella Nato essenziale. «Sarebbe come avere una portaerei nemica parcheggiata nel giardino di casa», ha scritto il politologo russo Dmitri Trenin, secondo il quale chiunque al Cremlino nei panni di Putin farebbe il possibile per impedire la circostanza. L’ipotesi di una invasione su larga scala denunciata a più riprese dalle agenzie di intelligence e dalla stampa americana appare oggi improbabile.
Tutti a Mosca conoscono i rischi legati a una guerra aperta in un paese con 45 milioni di abitanti, e le ripercussioni che avrebbe, prima di tutto sulla stabilità interna. Ne sono a conoscenza gli uomini degli apparati militari, che pure spingono per una posizione intransigente sulla sicurezza nazionale, così come quelli dell’establishment politico putiniano, interessati a difendere rapporti e anche privilegi costruiti nel tempo con i paesi europei.
L’opzione della guerra resta, quindi, sul tavolo come leva negoziale. Serve ai falchi dell’Amministrazione Biden per tenere viva l’attenzione su un dossier che probabilmente lo stesso capo della Casa Bianca preferirebbe spostare in secondo piano. E aiuta in fin dei conti anche il Cremlino.
DOPOTUTTO, NÉ PUTIN, né i suoi inviati a Bruxelles hanno offerto esplicite rassicurazioni sul tema. «Nel vertice di Bruxelles sono emerse differenze significative», ha ammesso Stoltenberg: «Proprio per questo è ancora più importante continuare il dialogo». È il risultato migliore che si possa raggiungere in questo momento.
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