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Napoleone era nero*

Napoleone era nero*

Ottant’anni dalla pubblicazione di "The Black Jacobins" di C.L.R. James Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal sud del mondo, quel libro continua a influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin. E quel lascito non cesserà di spaventare i padroni

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 18 novembre 2018

Compie ottant’anni The Black Jacobins di C.L.R. James, saggio storico tra i più influenti del ventesimo secolo, nonostante la sua influenza continui a suscitare imbarazzo, a essere rimossa o sminuita. È ancora incandescente la vicenda ricostruita – la rivoluzione haitiana guidata dall’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture – ed è ancora drastica la riconsiderazione della tradizione rivoluzionaria che, fin dal titolo, il libro esorta a intraprendere.

Ispirato nella struttura e nello stile alla Storia della Rivoluzione russa di Trotsky, e scritto tendendo l’orecchio alle proteste internazionali contro l’invasione italiana dell’Etiopia, The Black Jacobins fu pubblicato nel 1938. L’anno che segna l’inizio della sconfitta dei repubblicani spagnoli, che James cita nella prefazione; l’anno del famigerato Accordo di Monaco, col quale le principali democrazie borghesi d’Europa – Francia e Regno Unito – aprirono la strada al progetto imperialista di Hitler; l’anno della “Notte dei cristalli”, i cui clangori sembrano già echeggiare nel libro. La seconda guerra mondiale era ormai dietro l’angolo.

Proprio nel Regno Unito, C.L.R. James – nero delle cosiddette «Indie occidentali», militante marxista, scrittore e drammaturgo – osava alcune «considerazioni inattuali», e potenzialmente oltraggiose: una su tutte, che senza la rivolta di massa degli schiavi di Haiti, scoppiata nel 1791, la Rivoluzione francese non sarebbe stata la Révolution che tutti conosciamo. Non contento, aggiungeva che Toussaint L’Ouverture, spinto verso l’alto da contraddizioni immani e dall’urto di tumultuose forze sociali, fu uno dei più grandi uomini del suo tempo, pari solo al suo nemico Napoleone. Un Napoleone negro!?

Quello che James stava dicendo – ora in forma allegorica, ora esplicitamente – era: non può darsi alcuna vera rivoluzione in occidente senza rivoluzioni nelle colonie.

Nel 1938, mentre gli sguardi convergevano su Hitler, sembrava una prospettiva remota, un tema non all’ordine del giorno, e per una manciata d’anni la guerra sembrò spingerlo ancora più ai margini di ogni discorso. In realtà, mettendo a dura prova i centri dei più grandi imperi coloniali, (quello britannico e quello francese) e al tempo stesso mobilitandone in massa i sudditi «di colore», la guerra acuì proprio le contraddizioni su cui James aveva gettato luce.

Nel dopoguerra, le atrocità del nazismo divennero la nuova pietra di paragone per le atrocità del colonialismo. Basti un solo esempio: nella seconda metà degli anni Cinquanta l’opinione pubblica britannica, ancora fresca di vittoria contro il nazismo, scoprì gli orrori della Pipeline, il sistema di centocinquanta lager – come altro chiamarli? – aperti in Kenya per deportarvi la popolazione Gĩkũyũ e stroncare l’insurrezione Mau Mau. Emersero casi di prigionieri bruciati vivi o castrati con pinze da bestiame. Lo scandalo portò all’indipendenza del Kenya, e accelerò la fine dell’impero «su cui non tramontava mai il sole».

Quel che il borghese europeo non perdona a Hitler, scrisse Aimé Césaire nel 1950, «non è il crimine come tale, il crimine contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa». Una riflessione che The Black Jacobins aveva anticipato ancor prima della guerra, come aveva anticipato quelle di un altro figlio delle Indie occidentali, Frantz Fanon, autore dell’altra grande opera anticoloniale del XX secolo: I dannati della terra (1961).

Nel mentre, The Black Jacobins circolava, talvolta illegalmente, nei paesi dove ardevano le braci della rivolta coloniale. Diviso in dispense, copiato a mano modello samizdat, fu uno dei testi più diffusi nel Sudafrica dell’apartheid, tra attivisti di più generazioni, dal massacro di Sharpeville (1960) alla rivolta di Soweto (1976) e oltre.

Riletta nel suo ottantesimo anniversario, questa storia di uno Spartaco nero, di un’armata di schiavi che fa la rivoluzione, risulta più attuale che mai, per tante ragioni. Troppe perché questo articolo possa contenerle. In Italia e in gran parte d’Europa, in una torsione paradossale, i termini «schiavi», «schiavitù» e «schiavisti» sono usati strumentalmente per difendere il privilegio bianco e attaccare le mobilitazioni antirazziste: «Siete voi buonisti a difendere la nuova tratta degli schiavi!», «Siete complici degli scafisti, i nuovi trafficanti di schiavi!», «Li portano qui per farne degli schiavi!».

Del resto, neri ammassati su imbarcazioni che compiono un viaggio drammatico… Cosa potranno mai ricordare? Ma l’allegoria è fallace: gli scafisti non sono negrieri ma passeurs, perché i migranti vogliono essere trasportati in Europa e pagano per il viaggio, cioè per avere un servizio; che lo ricevano di qualità pessima, da parte di carogne senza scrupoli, è colpa sì di quelle carogne, ma prima ancora è colpa delle leggi europee sull’immigrazione. E, sì, la situazione rende quei viaggi molto pericolosi, ma non li rende uguali al Middle Passage delle navi negriere.

Il termine «schiavi» è usato dai razzisti per negare alle persone migranti ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Chi compie quei viaggi è descritto come mero corpo, materia bruta trasportata da un posto all’altro. Questo è il cliché razzista e coloniale sugli schiavi, e nessuno lo ha dimostrato meglio di C.L.R. James. Nella massa derelitta degli schiavi di Haiti erano in corso, invisibili al padrone, sommovimenti profondi, prese di coscienza, insubordinazioni striscianti, e quelli che nel gergo di oggi chiameremmo «percorsi di autoformazione». Ci si formava attraverso riunioni e lezioni clandestine, attraverso il sabotaggio, attraverso la fuga per raggiungere le comunità degli schiavi fuggiti, i Maroons, e persino per unirsi a ciurme di pirati. Da tali processi emersero, al momento giusto, un soggetto rivoluzionario e un grande esercito popolare, coi suoi comandanti, coi suoi brillanti strateghi, con il suo incredibile Napoleone. Un esercito che scosse l’ordine del mondo.

Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal sud del mondo, The Black Jacobins continua a influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin. E quel lascito non cesserà di spaventare i padroni.

Chiudo parafrasando una canzone degli Stormy Six: capitalisti e razzisti «ancora non si sentono tranquilli, perché sanno / che gira per il mondo Toussaint L’Ouverture».

*Questo articolo è tratto dal primo numero di Jacobin Italia, edizione italiana della rivista che ha rilanciato il dibattito nella sinistra radicale statunitense. Il progetto, edito da Alegre, è autonomo ma federato a quello d’oltreoceano e ha già raccolto 1500 abbonati (chi non ne ha sottoscritto uno può richiedere la rivista in libreria). Una redazione trasversale a differenti culture si muove, spiegano, dentro un orizzonte delimitato da due paletti. «Non ci interessano il sovranismo di ogni colore e il riformismo liberale». Per questo debutto, Jacobin Italia mette i piedi nel piatto e si chiede cosa significhi «Vivere in un paese senza sinistra», affrontando i temi della produzione e della riproduzione sociale, smontando il falso mito dell’egemonia culturale della sinistra, osservando il doppio movimento delle emigrazioni italiane e dei migranti che arrivano da queste parti. C’è poi una sezione dedicata alle «parole contese». Nel «paese senza sinistra – spiegano i redattori – parole come cambimento, beni comuni, reddito e democrazia diretta perdono di senso e ci vengono sottratte. Siamo nati anche per riprendercele». Il dossier tratto dall’edizione Usa si intitola «Breaking Bank». Parla dei dieci anni della crisi dei mutui subprime del 2008. Come ha cambiato l’immaginario, come ha reagito l’Europa, che fine hanno fatto gli apprendisti della finanza. Per informazioni e abbonamenti: www.jacobinitalia.it.

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