Quando nel 1926 Nabokov diede alle stampe il suo primo romanzo aveva appena ventisette anni, e da tre dimorava a Berlino, dove sarebbe rimasto fino alla partenza per Parigi, nel 1937. Aveva alle spalle un buon numero di racconti, un’apprezzabile produzione poetica e una traduzione di Alice nel paese delle meraviglie che ancora oggi affascina. A distanza di più di mezzo secolo dalla prima traduzione italiana di quel debutto (uscita da Mondadori nel 1971 col titolo Maria, a cura di Ettore Capriolo), Adelphi ne propone una nuova versione, sempre sulla base dell’edizione inglese ma adottando il più accattivante titolo dell’originale russo: Mašen’ka (in uscita martedì, traduzione di Franca Pece, pp. 150, € 18,00).

Il protagonista, Lev Ganin, un giovane espatriato scostante e irresoluto, alloggia in una modesta pensione berlinese, un microcosmo di brandelli vaganti di Russia distribuito in sei stanze (come sei sono i giorni in cui l’azione si svolge) e in perpetua attesa di qualcosa: il querulo Alferov, dalla barbetta color melma, aspetta l’arrivo della mogliettina Mašen’ka dopo quattro anni di separazione; l’anziano poeta Podtjagin aspira a ottenere il passaporto necessario per lasciare la Germania; la tremula Klara riveste di fantasticherie sentimentali le sue rassegnate titubanze; i ballerini classici Kolin e Gornocvetov, «leziosi e incipriati», sognano ingaggi dignitosi.

Il suo Doppelgänger
La Berlino sospesa in cui si aggira Ganin, spettrale e indecifrabile – tappa temporanea di molti emigrati russi diretti altrove (Praga, Parigi, l’America) – è lo stesso limbo che fa da sfondo a vari racconti radunati nel Ritorno di Chorb, pubblicato nel 1929, o al Dono. Città di caligini, paragonabile a una pellicola. Durante la proiezione di un film in cui, del tutto inaspettatamente, vede comparire sullo schermo la sua stessa sagoma (erano molti i russi che per raggranellare denaro facevano le comparse anonime, «vendendo la propria ombra»), Ganin riconosce il suo Doppelgänger e tocca con mano l’illusorietà di Berlino – quinta per figuranti, teatro di parvenze inquiete. Tornato in «quella casa triste dove vivevano sette smarrite ombre russe – scrive Nabokov – la vita nella sua interezza gli apparve come una ripresa cinematografica in cui delle comparse distratte ignorano tutto del film al quale partecipano». L’immagine dell’ombra catalizza la rappresentazione degli esuli spaesati, pronti a vedere un po’ di Russia perfino in una zolletta di zucchero («simile alla neve che si scioglie a primavera»), e viene utilizzata da Nabokov per illustrare lo sdoppiamento del protagonista: «la garbata compagna che aveva continuato a seguirlo, la sua grigia ombra primaverile, si allungò davanti ai suoi piedi e iniziò a parlare».

L’innesco narrativo si diparte, in modo non insolito per questo autore, dalla visione di un ritratto fotografico (un meccanismo dagli effetti dirompenti fino all’incompiuto Originale di Laura). L’immagine di Mašen’ka fa riaffiorare l’intera storia d’amore vissuta con lei dal protagonista, nove anni prima in Russia. L’intreccio delle coincidenze lo sconcerta – «era terribile pensare che il suo passato giaceva nella scrivania di un altro» –, ma lo spinge a riavvolgere il nastro della memoria. Da irriflesso che era – «ogni volta che vedeva delle nuvole spostarsi velocemente pensava alla Russia» –, il ricordo della patria perduta diventa un processo attivo, da eseguire con la massima cura: per ricatturare il passato, il dettaglio è tutto. L’immagine della ragazza potrà essere riportata in vita solo a processo compiuto, e il ripristino della cornice autobiografica e paesaggistica occupa pagine e pagine, prima che Mašen’ka faccia la sua comparsa – giorni, nel tempo berlinese, che in quello russo equivalgono ad anni.

Scandito dallo sferragliante clangore del passaggio dei treni della Stadtbahn, si mette così in moto già dalla prima pagina, nel claustrofobico spazio dell’ascensore rotto (che estremizza la condizione di convivenza forzata nella pensione e, allargando lo sguardo, nella Berlino degli émigrés russi) una sorta di conto alla rovescia che si protrae fino alla fine, alle ore che precedono l’arrivo effettivo di Mašen’ka.

Per Ganin il possesso di due passaporti, uno dei quali falso, è solo un indizio della sua fisionomia profondamente scissa: il cinico, apatico avventuriero capace di liberarsi con poche battute della relazione casuale intrecciata con una Ljudmila si sdoppia nel tenerissimo adolescente che è stato nove anni addietro. Una peculiarità del romanzo è forse proprio la messa a nudo dei procedimenti: il dispositivo fondante della produzione narrativa di Nabokov, ovvero la ripartizione di spazio e tempo su uno schema binario che prevede da un lato la Russia lasciata alle spalle, dall’altro la terra straniera dell’esilio presente, è qui esplicitato fino a diventare didascalico. Permeata di inevitabili risonanze autobiografiche (o pseudo-autobiografiche), sfumata e variata innumerevoli volte, la biforcazione spazio-temporale resta intellegibile in tutto il labirintico mondo dell’autore.

La divaricazione tra realtà berlinese e Russia riportata alla memoria in questo primo romanzo è netta, lo scarto tra presente e passato abissale. Geometricamente divisa tra squallore della pensione berlinese e magnificenza della natura che circonda la dimora dell’infanzia, la scrittura esibisce una maestria cromatica, altamente pittorica, riservata unicamente allo spazio fatato della tenuta russa, che si colora di tenui acquarelli pastello, o scorci ambrati, immersi in una pozza di luce, mentre su Berlino aleggia un crepuscolo giallognolo, e sulla pensione tinte tetre, insistentemente virate sul malva.

Riscontri biografici
Come chiarito dall’autore nella prefazione all’edizione inglese, uscita nel 1970 col titolo Mary, la figura femminile al centro del romanzo ha precisi riscontri biografici: Mašen’ka è la «gemella» della Tamara rievocata in Parla, ricordo, il cui prototipo reale risiede nella figura di Valentina (Ljusja) Šul’gina. Lo scrigno dell’infanzia e dell’adolescenza si rivela senza fondo per un Nabokov che non smette mai di attingere ai suoi tesori (nemmeno quando, ribaltandoli di segno, li rilegge come raccapriccianti nella Difesa di Lužin). E Mašen’ka è una silhouette che abita svariati suoi territori narrativi: non solo le pagine autobiografiche ma anche altre prose di finzione, dal frammento giovanile Una lettera che non raggiunse mai la Russia – geneticamente legato a Mašen’ka – fino al sovraffollato Eden di Ada).

Se dall’epigrafe tratta dall’Onegin occhieggia immancabilmente Puškin, tanto per mettere in guardia dai ritorni di fiamma, un mood distintamente chechoviano si riversa sia sulla figuretta di Klara sia su quella del poeta (che infila perfino una mesta menzione della Nuvola in calzoni di Majakovskij). Ma in Mašen’ka, considerato il romanzo di Nabokov più vicino al modello di Bunin, la tessitura intertestuale contempla anche rimandi non russi, dall’idea nietzschiana dell’eterno ritorno ai riverberi di Proust e di Kafka.
Ancora rudimentali, forse, i connotati dell’autore che conosciamo per le glaciali pirotecnie della Vera vita di Sebastian Knight, l’autoironia tagliente di Pnin, gli stratagemmi di Invito a una decapitazione, e in generale per la formidabile esattezza del repertorio metaforico impiegato: solo un assaggio, in questa prima prova, del Nabokov che mistifica e depista, e gongola del suo sublime senso della contraffazione.