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Myanmar, migliaia per strada. Va in scena la Rivoluzione 5-2

Myanmar, migliaia per strada.  Va in scena la Rivoluzione 5-2Le proteste in Myanmar – Ap

Dopo il golpe Contro il golpe altre mobilitazioni: lavoratori in sciopero e anche i monaci in piazza

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 febbraio 2021

Il 17mo giorno della protesta birmana inizia all’insegna di una sequenza di numeri: 22222, i «5-2». Si riferisce a ieri, 22 febbraio 2021, in cui compaiono 5 numeri 2 ma anche a quel 8888 (8 agosto 1988) in cui le piazze birmane si riempirono di una rivolta purtroppo finita male e che diede origine a quella «Generazione 88» che adesso fa da modello alla disobbedienza civile di queste ore.

IL NUMERO SIMBOLICO, il rimando storico, la strana magia dei numeri han fatto di ieri la manifestazione più straordinaria da che il 1 febbraio una giunta di militari ha preso il potere in Myanmar. Si salda con le ormai strafamose tre dita alzate, con gruppi punk come i Rebel Riot che postano sui social, sempre in grande attività, canzoni di protesta. In piazza ci sono centinaia di migliaia di persone a Yangon, Mandalay, Naypyidaw – solo per citare le città più importanti – nella più grande prova di forza dal 1 febbraio e dopo già quattro morti e centinaia di arresti. Sono milioni in piazza in tutto il Paese.

I negozi sono chiusi senza eccezione e nonostante le minacce della giunta (chi disobbedisce rischia la vita, ha detto la Tv legata ai militari Mrtv che Facebook ha subito oscurato) la gente non molla e sembra non temere di scontrarsi (pacificamente) con un gruppo di militari isolato e in difficoltà che cerca di contenere la protesta senza (troppo) sparare e che si limita ad arrestare senza nemmeno calcare la mano, anche se ieri gli arresti sarebbero stati comunque un discreto numero (tra il settembre e il novembre del 1973, per fare un esempio, furono incarcerate in Cile dalla giunta Pinochet nello stadio di Santiago circa 40mila persone nell’arco di meno di tre mesi!).

LE DICHIARAZIONI di appoggio alla protesta si susseguono in tutto il mondo e manifestazioni di solidarietà si segnalano in altri Paesi del Sudest asiatico mentre la Cina, sempre più in imbarazzo, cerca di prendere le distanze da quanto avviene pur se continua a ripetere il mantra dell’ «affare interno».
Non è più il 1973 cileno e nemmeno il 1988 birmano: telefonini, social, macchine fotografiche in mano ai manifestanti e gli occhi del mondo, per una volta, puntati senza tregua sulla «Rivoluzione 5-2».

LE IMMAGINI DIFFUSE da tutto il Paese via Twitter sono impressionanti: un mare di folla diffuso in più parti delle aree urbane. Non riusciamo a dire delle periferie dove in passato la protesta si è diffusa per poi in parte rientrare per l’evidente pressione dei militari su cittadine e villaggi. Ma lo sciopero nazionale è riuscito. Il Paese è bloccato. La giunta non sembra sapere che pesci prendere e se sta aspettando che la ribellione si attenui, si sbaglia: «Non vogliamo tornare in cucina fin che ci siete voi», è lo slogan di un gruppo di collaboratrici domestiche.

Tutti i segmenti sociali sono in piazza: medici e paramedici, impiegati, burocrati, operai, lavoratori informali. Ci sono sindacati, organizzazioni sociali, ong, corporazioni, categorie. La giunta non va giù nemmeno alla Confindustria locale il cui business è bloccato e nemmeno alle gradi fabbriche che qui hanno investito, da Coca Cola a Karlsberg.

LA PRESENZA TRA LA FOLLA di monaci buddisti intanto – inizialmente un po’ in sordina – aumenta e cosi quella di altri appartenenti a credi religiosi. Bhamo Sayadaw Bhaddanta Kumara, il monaco che rappresenta il vertice della comunità buddista birmana aveva già mercoledì scorso rilanciato una proposta di negoziato cui è seguita l’altro ieri una nuova richiesta dalla gerarchia cattolica, un «appello alla riconciliazione attraverso il dialogo», lanciato dalla Conferenza episcopale del Myanmar in un documento firmato da tutti i presuli delle 16 diocesi birmane.

L’Onu, attraverso il suo segretario generale, rincalza la dose. Antonio Guterres, alla vigilia della protesta, invita i militari del Myanmar «a fermare immediatamente la repressione…Rilasciate i prigionieri. Ponete fine alla violenza. Rispettate i diritti umani e la volontà del popolo espressa nelle ultime elezioni», dice. Gli fa eco Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Myanmar: «Diamo un avvertimento alla giunta: a differenza del 1988, le azioni delle forze di sicurezza vengono registrate e voi sarete ritenuti responsabili».

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