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Myanmar, lo sciopero silenzioso dice tutto

Myanmar, lo sciopero silenzioso dice tuttoYangon, capitale del Myanmar, febbraio 2021 – Ap

1 febbraio Nel secondo anniversario del golpe tattica soft del governo clandestino. E i militari prolungano di altri sei mesi lo stato d’emergenza. Dagli Usa nuove sanzioni contro la giunta e aiuti all’opposizione. Ma niente armi

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 2 febbraio 2023

Elezioni addio. Nel secondo anniversario del golpe del 1° febbraio 2021 la giunta militare birmana, che la Costituzione obbligava a indire elezioni a due anni da un’operazione di «pulizia istituzionale», ha esteso ieri di altri sei mesi lo stato di emergenza nel Paese: un’ammissione di fatto dell’impossibilità per i golpisti di tentare un referendum sul loro operato che ha tutte le carte in regola per essere un fallimento.

Il generale Min Aung Hlaing (Ap)

 

GIÀ MARTEDÌ, durante una riunione del Consiglio nazionale per la difesa e la sicurezza, si erano capite le intenzioni del comandante supremo generale Min Aung Hlaing che aveva accusato di violenza i gruppi pro democrazia e anti militari (il Nug-governo ombra e le milizie delle autonomie etniche) facendo capire che la situazione non avrebbe permesso consultazioni regolari.

La giornata di ieri è stata l’ennesima dimostrazione non solo che la giunta non ha se non un minimo consenso ma anche che il governo clandestino ha preferito una tattica morbida in grado di dimostrare al mondo (sempre che vi siano occhi e orecchie aperte) chi sta dalla parte del torto: mentendo e continuando a rinviare persino un’elezione farsa.

Non ci sono al momento infatti indicazioni di episodi di violenza che abbiano turbato la ricorrenza del 1 febbraio. I due anni di golpe sono stati ricordati dall’opposizione nelle città con uno sciopero silenzioso nei maggiori centri urbani: braccia conserte, strade vuote e negozi chiusi nonostante le minacce dei militari. E anche qualche scelta di puro coraggio: una manifestazione in centro a Yangon scortata da file di militari. Qualche manifestazione anche da parte dei lealisti. Ma è il silenzio dello sciopero – il quarto in due anni – ad aver parlato il linguaggio dell’opposizione.

DAL CANTO SUO IL GOVERNO ombra di Aung San Suu Kyi, la leader storica ora condannata a decenni di galera, si è limitato a un blando comunicato dove annovera i crimini del regime: «2.894 morti tra cui 279 bambini, 447 donne e 70 operatori sanitari; 62.399 abitazioni distrutte tra cui 163 edifici religiosi;1,5 milioni di sfollati interni. In questo biennio della Rivoluzione di Primavera ci sono stati 654 raid aerei con 288 civili innocenti uccisi e 377 feriti».

Un attivista della resistenza che incontriamo nella capitale tailandese ci conferma il quadro e un contesto in cui «si è riaffacciata la tubercolosi e persino l’Aids. La situazione sanitaria è fuori controllo. Il Nug ha organizzato stage di telemedicina con medici della diaspora ma è insufficiente per far fronte alla crisi umanitaria».

UNA CRISI a cui la comunità internazionale non sembra in grado di rispondere anche perché continua a non prendere posizione rispetto al riconoscimento o meno del Nug. «Va capito cosa vogliono fare gli americani che hanno passato una legge favorevole ad aiutare con denari sia il Nug sia le autonomie regionali».

Ma non è chiaro fino a che punto Washington, che in occasione dell’anniversario del 1 febbraio ha varato nuove sanzioni che colpiscono i generali, intenda spingersi. Gli Stati uniti hanno approvato una versione modificata del Burma Act (Burma Unified Through Rigorous Military Accountability Act 2021) che di fatto riconosce il Nug e intende aiutare opposizione e resistenza nel Myanmar ma senza fornire armi. «Potrebbe però essere estesa per esempio alla fornitura sistemi qualificati di intercettazione – dice ancora l’attivista – che ci consentano di capire dove i raid aerei intendono colpire. Un modus operandi sempre più utilizzato dai golpisti con l’aiuto dei russi (che forniscono armi e tecnologia ndr)».

«Riconoscere il Nug – spiegava giorni fa a Yangon un diplomatico della Ue – vorrebbe però dire chiudere definitivamente le ambasciate che, in questo limbo, restano funzionanti e di fatto consentono di tenere un occhio aperto sulle malefatte del regime».
UN DILEMMA NON FACILE anche perché in ballo ci sono i bisogni della gente. Nel caso italiano per esempio, c’è circa un milione di euro in fondi per lo sviluppo congelati dal giorno del golpe. L’Italia non vuole correttamente darli alla giunta ma, congelati come sono, non aiutano nessuno. Andrebbero trasformati in “aiuto umanitario” così che le ong italiane presenti in loco possano servirsene per sostenere le enormi necessità di un Paese in ginocchio. È quello in sostanza che dieci associazioni italiane presenti in Myanmar hanno chiesto a dicembre al viceministro Edmondo Cirielli con una lettera. Una scelta dunque che dipende da Roma.

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