Inaugurazione da tutto esaurito in piazza Grande con Bullet Train di David Leitch con Brad Pritt protagonista nei panni di Ladybug, coccinella, killer efferato ma stanco con tanto di psicanalista e consulente via auricolare. Il treno in questione è quello così chiamato perché collega, in alta velocità Tokyo a Kyoto, ma significa anche treno-pallottola, nuovo prototipo per i vari riferimenti al trenino Thomas, cartone e gioco per infanti o, in giapponese Shinkansen, come recita il titolo del romanzo I sette killer dello Shinkansen di Isaka Kotaro che sta alla base del film. Un mischione di manga, Tarantino, Coen, Fast & Furious affidato però a un regista nato come stuntman (e controfigura di Brad Pitt), quindi tutto è esasperato, i morti non si contano più, ogni personaggio è un assassino con conti in sospeso, ognuno interpretato da attori, alcuni molto noti (anche in camei non accreditati) altri meno, tutti sopra le righe per un’azione che non sempre riesce a coniugarsi con la battuta a mezza via tra sarcasmo e umorismo. Un film divisivo che almeno ha il merito di non lasciare indifferenti. Per avere un’opinione in Italia bisognerà attendere la data d’uscita fissata da Sony-Warner il 25 agosto.

ANNUNCIATO invece per i primi di novembre da Wonder il secondo film presentato in piazza Grande: My Neighbor Adolf di Leon Prudovsky, coproduzione polacco israeliana con accompagnamento di qualche polemica per la quota israeliana rigidamente e contrattualmente filogovernativa e poco liberal nei finanziamenti. Ma in questo caso l’argomento è altro rispetto all’attualità. Si parte infatti dal 1934 quando la numerosa famiglia ebraica Polsky vive serenamente, tra scacchi, foto di famiglia e gusci di uova frantumati per concimare le rose. Poi ci si sposta in Sudamerica nel 1960, i giornali riportano della cattura di Eichmann. In una casa sperduta ai margini di un villaggio vive Marek, unico sopravvissuto alla Shoah della famiglia Polsky. Vive solitario e di ricordi e per coltivare le rose nere in memoria di sua moglie. Sino a quando non arriva un misterioso vicino che Marek sospetta sempre più possa essere davvero Hitler sopravvissuto al bunker e ai sovietici. All’ambasciata israeliana lo rimbalzano, allora lui si mette a indagare da solo, alla ricerca della prova irrefutabile, dopo tanti indizi, ma per farlo si ritrova costretto necessariamente a interagire con il vicino, presunta personificazione del male.

La sceneggiatura è cesellata sulla ricerca spasmodica di prove, con tratti a volte esilaranti

SEMBREREBBE, e in parte lo è, una storia piuttosto bislacca e forse anche un po’ sciocca, invece, riesce progressivamente a catturare con un’ottima trovata che va poi a chiudere perfettamente il racconto. La sceneggiatura è cesellata sulla ricerca spasmodica di prove (gli occhi, i cani, i dipinti, i momenti di collera…), con tratti a volte esilaranti, ma gran parte del merito va a una coppia che riesce a dare grottesca credibilità a due personaggi con alto tasso di improbabilità. David Hayman è magistrale nel dare volto e anima a Marek, perso nella sua scontrosa desolazione, ma pronto a ritrovare energie e interesse nel tentativo di smascherare quel vicino così ingombrante che lui ritiene, oltre al resto, lo sterminatore della sua intera famiglia. Udo Kier, con barba fluente ha un compito forse ancora più arduo perché il suo Helmut Herzog è personaggio sempre sul filo del rasoio, non può, e non deve, risultare simpatico, perderebbe ogni sfumatura di credibilità, ma riesce a essere ambiguo a sufficienza per mantenere viva l’ossatura stessa che è poi la caratteristica che sostiene tutta la storia.