Juan Matías Gil, 42 anni argentino, è capomissione da terra di Medici senza frontiere (Msf). Al suo attivo ha molti anni di lavoro nel soccorso civile e diverse missioni in mare. Tra i vicoli del centro storico di Catania, mentre prende una pausa dopo una giornata complicata in cui le autorità italiane hanno fatto sbarcare solo i naufraghi ritenuti «vulnerabili», dice al manifesto di trovarsi davanti a «una situazione totalmente inedita».

Come sono andate le operazioni di sbarco?

Sono state veloci ma a bordo abbiamo ancora 215 persone [durante la notte una di queste è stata trasferita in ospedale per i forti dolori addominali, ndr]. Prima erano 572. Bambini, minori, donne e famiglie sono potute scendere. Sulla nave, però, c’è ancora tante gente. Il soccorso non sarà terminato fin quando non avranno toccato tutti terra.

I migranti rimasti sulla nave come vivono la situazione?

C’è molta tensione. È difficile spiegare perché loro sono dovuti rimanere lì mentre gli altri sono sbarcati. Nonostante siamo in porto non è semplice capirlo. Non lo capiamo neanche noi. In passato, in situazioni analoghe, abbiamo visto gente buttarsi in acqua per tentare di raggiungere la terra. Speriamo non avvenga anche stavolta.

Con che criteri sono state scelte le persone «vulnerabili»?

È difficile saperlo. Quale legge prevede questa distinzione? A bordo è salito l’Usmaf [Ufficio di sanità marittima aerea e di frontiera, ndr] e ha segnalato tutti i casi medici. Insieme a donne, bambini e famiglie.

Se vi arriverà l’ordine di lasciare il porto, come successo a Humanity 1, cosa farete?

Siamo fermi nel dire che le operazioni di ricerca e soccorso vanno concluse. E questo avviene solo quando tutte le persone sbarcano. Non lasceremo il porto. Sarebbe una violazione del diritto internazionale del mare.

Nei mesi scorsi sono ricominciati i Port state control (Psc). Avete paura che dopo lo sbarco  arrivi un’ispezione che disponga la detenzione della nave?

Abbiamo ricevuto un Psc a luglio. Ha verificato il rispetto di tutte le condizioni tecniche necessarie a garantire la sicurezza di ciò che facciamo. Dopo tre mesi sulla nostra nave non è cambiato nulla.

Dallo Stato di bandiera norvegese avete avuto reazioni?

La Norvegia è consapevole, e ha certificato, che la nostra nave rispetta tutti gli standard di sicurezza necessari a svolgere le attività di ricerca e soccorso. Per questo è disposta ad appoggiarci.