Emergency, diritti in alto mare
Reportage Parlano i protagonisti dei salvataggi a bordo della «Life Support»
Reportage Parlano i protagonisti dei salvataggi a bordo della «Life Support»
«Quando abbiamo raggiunto un gommone che era in mare da tre giorni, alla deriva da uno e mezzo, c’era un uomo che brandiva un bimbo sopra di lui a mo’ di Re Leone come a mostrare un’urgenza, e in quel momento mi si è gelato il sangue perché non si capiva se il piccolo, coperto da un salvagente, fosse cosciente o no. Erano tutti terrorizzati, ci guardavano come se fossimo sbucati da chissà dove per salvarli, degli alieni bardati con caschi e equipaggiamento che urlavano ordini incomprensibili per manovrare bene l’operazione. C’erano solo due donne a bordo ed erano le uniche che non riuscivano a trattenere dei gran sorrisi, molto intensi. Non erano ancora state salvate, però avevano capito che stava per succedere qualcosa di bellissimo» racconta a caldo il navigatore oceanico Ambrogio Beccaria, 32 anni, che sostiene EMERGENCY partecipando a questa missione come soccorritore. Beccaria, il primo italiano a vincere nel 2019 la Mini-Transat, la storica transatlantica in solitario, è il navigatore oceanico italiano più forte della sua generazione e uno dei migliori a livello internazionale. «Da marinaio ho una sorta di empatia verso i naufraghi perché da un momento all’altro potrei diventarlo pure io. Ed essendo marinaio italiano, poiché arrivano qui gli sbarchi, non vedo proprio come si possa essere distaccati» aggiunge. Siamo a bordo della nave Sar (search and rescue: ricerca e salvataggio) di EMERGENCY, la Life Support, per la sua 23° missione.
A bordo si indossa tutti lo stesso abbigliamento (che cambia a seconda delle zone), si partecipa tutti – anche la stampa – a caricare i viveri, a pulire gli spazi comuni, agli addestramenti, alle esercitazioni, ai training, ai turni, ai salvataggi. Si diventa un unico team con una motivazione e un entusiasmo così forti da produrre l’adrenalina necessaria per superare lo stress fisico e mentale, il caldo torrido, la mancanza di sonno. Abbiamo soccorso in acque internazionali della zona Sar maltese 65 naufraghi partiti dalla costa libica provenienti da Siria, Bangladesh, Egitto e Eritrea, fra cui una donna siriana con un figlio di tre anni e due adolescenti, e sette minori non accompagnati. E M., siriano, 21 anni, che provava la traversata per la nona volta – le altre otto era stato riportato indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica. È sopravvissuto a sparatorie, a giorni in acqua, a un anno e mezzo di prigione in Libia, ha subito e visto torture inenarrabili e l’uccisione di almeno 30 persone. Il suo viaggio gli è costato 20.000 dollari (la sua famiglia ha dovuto vendere la casa), tre anni di vita all’inferno e un trauma che gli rimarrà dentro.
Essere parte attiva di un salvataggio, tendere la mano su quel confine in cui si incontrano il terrore e la fiducia, provoca un’emozione così potente che l’unico modo per non venirne sopraffatti è svolgere con la massima cura il proprio lavoro. È una situazione in cui bisogna essere concentratissimi perché può succedere di tutto, dall’intervento armato delle milizie libiche a reazioni di panico da parte di persone traumatizzate. Dopo quattro giorni di navigazione abbiamo sbarcato i naufraghi al porto assegnato di Ortona dove sono stati presi in carico da un dispiegamento di forze difficilmente visto nelle retate di terroristi, mafiosi o criminali.
Qui a bordo è chiaro a tutti che l’emergenza non sono gli sbarchi ma la pressoché totale assenza della tutela dei diritti delle persone in mare, e non ci sono dubbi da quale parte stare. Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dal 2014 a oggi più di 30.000 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo, cifra sicuramente molto più bassa di quella reale. «I naufraghi dell’ultimo salvataggio erano in un tratto di mare non battuto dalle rotte commerciali, a Est di Malta. Se non avessimo deciso di partire verso quella segnalazione, sarebbero semplicemente spariti e nessuno avrebbe saputo della loro sparizione. Come di quella di tantissime persone di cui oggi non conosciamo il destino» sottolinea l’infermiere Sauro Forni, che ci tiene a ricordare la storia di una donna, «una siriana di 78 anni che abbiamo soccorso in mare con figli e nipoti. Ad Amatrice avevo visto terremotati che non si staccavano da luoghi in cui tutto era distrutto, perché non è facile, specialmente per gli anziani. Quella donna che aveva intrapreso un viaggio così pericoloso mi ha fatto capire che la disperazione non ha età».
Jonathan Nanì La Terra, responsabile del Sar team e antropologo, dice: «Credo che tutti abbiano il diritto di poter muoversi liberamente, a maggior ragione se scappano non solo da guerre, ma anche da qualsiasi tipo di problema. Se non ci si può muovere perché il proprio paese è in guerra, penso che si debbano creare dei corridoi umanitari che permettano di farlo. Queste persone si ritrovano in mare e c’è bisogno di qualcuno che le salvi. Non lo fanno i governi europei? Male, malissimo. Ma qualcuno deve farlo. Siamo qui a mettere una pezza, a cercare di non fare morire queste persone, di dar loro una seconda possibilità di costruirsi la propria vita altrove». La logista Paula Virallonga, che ha lavorato per le persone in movimento in Africa, Europa, Asia e America Centrale, precisa: «Non mi piace la parola ’aiuto’, anche se non so come sostituirla. Queste persone non avrebbero bisogno del nostro aiuto se ci fosse giustizia. Cerchiamo solo di stare, per quanto possibile, dalla loro parte. Quindi non si tratta di aiutare ma di lavorare per rendere il mondo un posto dove sia possibile convivere come esseri umani con gli stessi diritti. Anche se so che è un’utopia».
Secondo la mediatrice culturale Mariam Bouteraa, nata a Mazzara del Vallo da genitori tunisini, che da piccola si sentiva «sbagliata» sia in Italia che in Tunisia, e che ora invece considera l’appartenere a due culture il suo più grande patrimonio, «quello che manca sulla narrazione dei migranti è la considerazione della persona come essere umano. È questo che porta ad avere paura e a cadere in stigmatizzazioni varie, perché se si considera l’altra persona come umana le si restituisce la dignità che è innata in tutti noi».
Flavio Catalano è stato per 36 anni ufficiale di macchina della Marina militare e ha cominciato a fare volontariato mentre era ancora in servizio: «Se non mi fosse stato permesso di indossare la maglietta di EMERGENCY l’avrei capito e anche un po’ condiviso».
Ma è stato accettato, e ora è responsabile del ponte, un ruolo operativo nel soccorso sulla nave, e non ha il minimo dubbio: «Le normative sono e sono sempre state volte a salvaguardare la vita in mare, anche quando per secoli non erano scritte. Il marinaio ha sempre salvato l’altro marinaio perché oggi a te, domani a me». Racconta con empatia il primo salvataggio: «È stato di una barca che era molto vicina a noi. Ci hanno chiamati, siamo usciti e vedendo le persone che erano a 200 metri qui sotto, ho pensato «ma allora ci sono davvero».
Poi mi ricordo degli uomini in piedi che tremavano, uomini adulti, sani, apparentemente. Non voglio allargarmi troppo con questa compassione perché vorrei averne di più, però sì, provavo compassione nel vedere tremare uomini idealizzati come esseri forti, non in quanto uomini e non donne, ma in quanto esseri umani adulti, e quella volta erano tutti uomini, erano pachistani».
La giovane infermiera Marilena Silvetti, appassionata di antropologia medica, condivide l’empatia: «Quello che ogni volta mi spiazza è riconoscere nell’altro me stessa, i miei sogni, le mie paure, le mie ansie, le mie aspettative, il mio bisogno di affettività, la mancanza della famiglia e degli amici, il desiderio di una vita migliore». La capomissione Anabel Montes Mier è nata nelle Asturie, «un posto molto selvaggio», ed è dipendente dall’adrenalina, perché quando è sotto pressione dà il meglio di sé. È stata nuotatrice agonista, aereo-soccorritrice in mare, laghi e fiumi, e bagnina per 12 anni. Dal 2015 si è messa a servizio dei bisogni umanitari: «Aiutavo persone in pericolo per incidenti in scenari divertenti o felici. Nessuno merita di essere lasciato indietro e di morire in mare, soccorrere chi è costretto al rischio nell’assoluta indifferenza di metà del mondo dà ancora più significato al mio lavoro». Paola Tagliabue, medico anestetista rianimatore, testimonia che il 30-40% dei superstiti visitati ha addosso lesioni da torture: «Penso che sia intollerabile girarsi dall’altra parte e che le Ong non dovrebbero essere lasciate sole a colmare un vuoto, ma bisognerebbe coordinare il lavoro di soccorso a livello europeo, non solo nazionale».
Last but not least la comandante Laura Pinasco, una delle poche donne che hanno avuto la forza e il coraggio di diventare comandanti della Marina mercantile a 30 anni, aveva voglia di «stare con persone che vogliono il bene degli altri, non in ambienti così competitivi da essere a volte malati». Afferma: «Abbiamo molte difficoltà perché c’è sempre lo spettro del fermo amministrativo, di incorrere in sanzioni, pur facendo la cosa giusta. Questi ostacoli vanno contro le leggi internazionali. Essere qui è un po’ come dire no, che ci sono dei principi che sono stati conquistati e non si può far finta di niente, tornare indietro dicendo che non valgono niente».
Nel luglio 2023, cinque importanti Ong – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, EMERGENCY, Medici Senza Frontiere, Oxfam Italia e SOS Humanity – hanno presentato cinque distinte denunce sulla legge Piantedosi (la legge n. 15/2023) e sulla prassi delle autorità italiane di assegnare sistematicamente porti distanti per lo sbarco dei sopravvissuti salvati in mare. Le Ong sostengono che la legge e la prassi non sono in linea con gli obblighi degli Stati membri dell’UE ai sensi del diritto del mare, del diritto europeo e delle convenzioni internazionali, e che rappresentano un ostacolo sistematico alle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Come previsto dai meccanismi di denuncia dell’Unione europea, la Commissione europea deve condividere una valutazione preliminare del reclamo entro due mesi dalla registrazione e decidere se avviare una procedura formale su una violazione del diritto dell’UE da parte di uno Stato membro entro un anno. Passato un anno, la Commissione ha comunicato di aver bisogno di più tempo per esaminare le denunce. Nel frattempo, le Ong vengono allontanate dalle acque di soccorso sprecando risorse e denaro, e il numero dei morti e dispersi in mare aumenta.
La Life Support dalla sua prima missione nel dicembre del 2022 a oggi ha salvato 2.222 vite nel Mediterraneo Centrale, la rotta più letale del mondo. Sul fianco sinistro, una frase di Gino Strada: «I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi».
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