A Parigi si annunciano nuove giornate di manifestazione contro Macron e la sua «riforma» delle pensioni. In Israele la settimana scorsa è sceso in piazza contro Netanyahu un milione di cittadini. Ciò che colpisce l’osservatore attento è il fatto che due paesi diversissimi tra loro ma con vantate tradizioni democratiche come Francia e Israele abbiano oggi governi che sfidano apertamente la maggioranza della popolazione e sostanzialmente si reggano sulla repressione poliziesca o su movimenti dichiaratamente fascisti. La mobilitazione di questi giorni a Parigi è solo una nuova fase della rivolta contro le politiche neoliberiste del presidente Macron iniziate fin dalla sua elezione nel 2017, politiche la cui violenza era già stata sperimentata contro i gilet gialli nel 2018-19.

Ma non è una crisi francese, una rivolta parigina come ce ne sono periodicamente ad ogni generazione. Se c’è un dato comune alla politica di governi diversi come quello di Bibi Netanyahu in Israele di Rishi Sunak in Gran Bretagna e di Giorgia Meloni è la determinazione a spostare risorse dai più poveri ai più ricchi, dalle spese sociali alle spese militari. Il capitalismo nella sua fase attuale diventa sempre più violento e autoritario.

E in Italia, quindi?

Il filosofo Sergio Labate ha scritto nei giorni scorsi: «Perché a parità di crisi sociale in Francia si fanno le barricate mentre qui si vota Meloni?». Si tratta di una domanda che va ben oltre l’attualità politica, che forse non trova la sua risposta nella mediocrità, fin qui, del Pd e nelle oscillazioni dei Cinque stelle ma in fenomeni più profondi che riguardano la storia d’Italia.

Guardiamo per un momento all’ondata di proteste in Israele: è stata amplificata dall’azione di Brothers in Arms, un gruppo di veterani di una unità d’élite dell’esercito, che ha profondamente influenzato il resto delle forze armate.

E le forze armate sono un pilastro della società israeliana, perché coinvolgono la grande maggioranza dei cittadini. L’esercito non è professionale ma di leva, recluta uomini e donne, chi non è in servizio diventa riservista e torna nei ranghi per un periodo ogni anno.

Il fatto che i soldati si siano quindi mobilitati in difesa di un’istituzione classicamente liberale come la Corte suprema mostra un attaccamento alle forme della democrazia rappresentativa che non esclude la repressione e la violenza contro i palestinesi ma è comunque un rifiuto del fascismo e del potere personale, assolutista di Netanyahu.

In Francia è l’arroganza del presidente Macron, più che i dettagli della riforma delle pensioni, a motivare chi protesta. In entrambi i casi c’è un sentimento generalizzato di rifiuto dell’appropriazione del governo da parte di oligarchie che ignorano o disprezzano il resto della popolazione. In sostanza, francesi e israeliani dicono «Questo paese è nostro!».

Storicamente gli italiani che dicevano lo stesso sono sempre stati minoranza. Minoranza nel Risorgimento, minoranza sotto il fascismo, minoranza durante la Resistenza, minoranza nel mezzo secolo democristiano. Certo sono state minoranze attive, eroiche, capaci di resistere e trasformare, capaci di conquiste fenomenali.

Se l’Italia ha la Costituzione del 1948, il voto alle donne, il divorzio, l’aborto, il Servizio sanitario nazionale, la legge Basaglia e una Corte costituzionale che difende i diritti fondamentali di tutti, il merito va a loro. Talvolta è sembrato davvero che l’egemonia culturale della sinistra potesse trasformare il Paese.

Alla fine, però, il muro di gomma ha prevalso e i cittadini si sono rinchiusi nella difesa sempre più affannosa del potere d’acquisto, nell’educazione dei figli, nelle routine quotidiane. Moltissimi, oggi, danno il loro contributo ad associazioni che accolgono migranti, aiutano chi è in difficoltà, fanno cultura, suppliscono alle assenze dello Stato. Ma nel fare tutto questo hanno rinunciato a pensare di poter essere loro lo Stato. La partecipazione al voto è passata dal 90% negli anni ’70 al 50-60% oggi.

Partiti e sindacati non sono stati all’altezza della situazione. Il potere del denaro, della televisione commerciale, della corruzione è evidente. Quasi trent’anni di berlusconismo sono una macina da mulino al collo. Ma sarebbe sciocco dimenticare che le vicende storiche dell’Italia pesano altrettanto, dalla faticosa unificazione del 1861 alla mancata epurazione del 1945.

Oggi siamo una democrazia dimezzata, un regime politico dove il conflitto è stato dimenticato, dove il quieto vivere prevale. Invece di scendere in strada guardiamo il Grande fratello. Non sarà sempre così e la banda raccogliticcia attorno alla Meloni farà danni ma durerà poco più dei governi tradizionali. Imparare dagli esempi francese e israeliano, in ogni caso, ci farebbe bene.