Con le proteste anti-Pakistan che dilagano in tutto il paese, il rifiuto della Russia a prendere parte alla ministeriale Esteri – di domani sull’Afghanistan è simbolo della preoccupazione con cui il Cremlino sta guardando alla crisi che sta interessando il paese.

Un rifiuto giustificato dalla «poca chiarezza» dei partner occidentali sul formato dell’incontro (Francia e Germania hanno parlato di un vertice, mentre il Giappone di G7), ma che potrebbe essere espressione dell’accortezza con cui Mosca guarda alla crisi afghana.
Non è un caso che il rifiuto arrivi proprio mentre l’Italia si sta spendendo per organizzare un G20 straordinario; o che Draghi abbia telefonato a Putin ancora prima che a Biden; o che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, sia stato in visita a Roma poco più di una settimana fa.

Ed è altrettanto plausibile pensare che il G20, espressione del multilateralismo, sia un formato preferibile per i russi, che dal G8 (ora G7) sono stati cacciati.
L’accortezza russa rispetto alla crisi afghana è anche dimostrata dal fatto che, dopo l’annuncio del nuovo governo dei talebani, Mosca (che a Kabul ha mantenuto ambasciata e personale diplomatico) si sia limitata a notificare di aver ricevuto l’invito a partecipare alla cerimonia inaugurale del nuovo esecutivo talebano.

Proprio ieri il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha chiarito che la Russia non ha ancora preso decisioni sul riconoscimento del movimento dei talebani, essendo ancora in attesa di capire «come le loro dichiarazioni potranno trovare conferma in azioni concrete». Lo stesso Lavrov ha dichiarato che la Russia prenderà parte all’insediamento «se il nuovo governo sarà inclusivo». «Vogliamo sostenere la formazione di un esecutivo che rifletta l’intero spettro della società afgana, così come di altri gruppi etnici», ha detto.

Nonostante le cautele, è indubbio che la crisi sia motivo di preoccupazione in Russia: il canale di dialogo aperto (che Mosca ha tutto l’interesse a mantenere) non può prescindere dal fatto che i talebani siano sostenuti dal Pakistan e indirettamente dalla Cina.
La presa del potere del movimento potrebbe quindi finire, nel tempo, con lo scalzare definitivamente Mosca dalle repubbliche dell’Asia centrale.

Paesi in cui la Russia mantiene una forte influenza (con basi militari in Tagikistan e Kirghizistan e con l’ombrello della Csto), ma in cui la pressione cinese è già molto radicata.
Una disponibilità al dialogo «accorta» quindi, quella della Russia nei confronti dei talebani (con cui in passato Mosca ha anche combattuto), a differenza della Cina il cui ministro degli Esteri, Wang Yi, ha ricevuto una delegazione ancora prima che conquistassero Kabul e i capoluoghi distrettuali più importanti (anche Pechino, in ogni caso, nutre non poche preoccupazioni in termini di sicurezza in seguito al nuovo assetto afghano, muovendosi in modo più cauto di quanto non facciano pensare alcune dichiarazioni pubbliche ).

Alla crisi di Kabul la Russia guarda quindi con preoccupazione, pur essendo cosciente della necessità di mantenere un dialogo costruttivo in una zona strategica per la sua influenza geopolitica: in quest’ottica, per i russi avrebbe senso raggiungere un accordo strategico e complessivo con gli Stati Uniti.
Ed è forse in virtù di ciò che va letto il rifiuto a partecipare al G7, possibile espressione di un tentativo di «alzare il prezzo».