Morire in carcere, senza giustizia, nell’Eritrea di Afewerki
Berhane Abrehe L'ex ministro delle Finanze eritreo, arrestato nel 2018 per aver criticato dall'interno il regime, non ha mai visto un'aula di tribunale. Il decesso lunedì scorso in cella. Una storia, la sua, che è quella di molti altri dissidenti. Ma il mondo e l'Italia si girano dall'altra parte
Berhane Abrehe L'ex ministro delle Finanze eritreo, arrestato nel 2018 per aver criticato dall'interno il regime, non ha mai visto un'aula di tribunale. Il decesso lunedì scorso in cella. Una storia, la sua, che è quella di molti altri dissidenti. Ma il mondo e l'Italia si girano dall'altra parte
La morte di Berhane Abrehe, ex ministro delle Finanze dell’Eritrea, avvenuta in una delle terribili prigioni del regime di Asmara, è un altro colpo al cuore di un popolo già martoriato da decenni di oppressione. Berhane, un uomo che ha osato alzare la voce contro il dittatore Isaias Afewerki, è stato ridotto al silenzio in una delle maniere più crudeli possibili: lasciato morire in carcere, lontano dagli occhi del mondo, senza il conforto di un processo equo o di una giustizia che potesse redimerlo.
La sua storia è quella di molti altri dissidenti eritrei, prigionieri di coscienza la cui unica colpa è quella di aver sperato in un futuro migliore per il loro Paese. Berhane, con il suo libro Hagerey Eritrea, (Eritrea il mio Paese) aveva sfidato la narrazione ufficiale, denunciando apertamente il regime e chiedendo un dibattito pubblico con Afewerki, un gesto di straordinario coraggio che non poteva essere tollerato.
Il suo arresto, avvenuto nel settembre del 2018, e la sua successiva detenzione sono la testimonianza di un sistema repressivo che non ammette critiche, che non tollera dissenso, che schiaccia ogni tentativo di ribellione con la forza e la violenza. Berhane, classe 1945, è morto senza mai aver visto l’interno di un’aula di tribunale, senza che gli fosse concessa la possibilità di difendersi, come migliaia di altri prigionieri in Eritrea.
Non possiamo dimenticare che i primi a essere arrestati, il 18 settembre 2001, furono gli esponenti politici del cosiddetto G-15, tutti membri del partito al potere, il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia. Questi leader avevano sottoscritto una lettera aperta per chiedere riforme urgenti. Tra loro c’erano figure di spicco come l’allora vicepresidente del partito, Mahmoud Ahmed Sheriffo, la moglie ed eroina della guerra d’indipendenza Aster Fissehatsion, e gli ex ministri degli Esteri Haile Woldetensae e Petros Solomon.
Seguirono, tra il 21 e il 23 settembre, gli arresti dei giornalisti che avevano osato pubblicare quella lettera: Dawit Isaak, Seyoum Tsehaye, Dawit Habtemichael, Mattewos Habteab, Fesseaye “Joshua” Yohannes, Amanuel Asrat, Temesegn Gebreyesus, Said Abdelkader, Yosuf Muhamed Ali e Medhanie Haile. Da quel momento, tutta la stampa indipendente nazionale è stata bandita, con un colpo secco e irreversibile alla libertà di espressione nel Paese.
Tra gli altri prigionieri di coscienza figurano cittadine estranee alla politica come Ciham Ali, figlia dell’ex ministro dell’Informazione Ali Abdu, arrestata nel 2012 all’età di 15 anni mentre tentava di lasciare il paese. Nel corso di questi anni sono circolate numerose voci sulla morte in carcere di nove dei prigionieri arrestati nel 2001, ma dalle autorità eritree non è mai giunta alcuna conferma, alimentando il sospetto che queste vite siano state spezzate in segreto, senza alcuna giustificazione.
Il silenzio che avvolge la morte di Berhane è assordante. Non si conoscono le cause, né l’ora esatta del decesso avvenuto lunedì scorso, un’ulteriore prova dell’oscurantismo che avvolge la dittatura di Afewerki. E mentre il mondo si volta dall’altra parte, fingendo di non vedere, l’Eritrea continua a essere un inferno per chiunque osi sperare in un cambiamento.
Non possiamo accettare che la morte di Berhane Abrehe passi inosservata, che la sua lotta per la libertà venga dimenticata. La comunità internazionale ha il dovere morale di chiedere giustizia per lui e per tutti gli altri prigionieri di coscienza che languiscono nelle prigioni eritree. L’Italia, in particolare, che ha storici legami con l’Eritrea, non può continuare a collaborare con un regime sanguinario senza chiedere conto delle migliaia di vite distrutte dalla repressione.
Ma forse, purtroppo, siamo già abituati a questo: al silenzio complice, alla mancanza di responsabilità, alla connivenza con un regime che non conosce pietà. Berhane Abrehe è morto per aver osato sperare in un’Eritrea libera. Che il suo sacrificio non sia stato vano. Che la sua memoria ci spinga a non dimenticare e a continuare a lottare per la la libertà del popolo eritreo.
* portavoce di Eritrea Democratica
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