Non è stato un pesce d’aprile, venerdì scorso la Camera Usa ha approvato per la seconda volta il Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement (More) Act. La prima, nel dicembre 2020 era troppo vicina alla chiusura della legislatura per non essere relegata a mero atto simbolico. Con tre anni davanti e un Senato a maggioranza democratica, pur risicatissima, il gioco si fa serio.

Il provvedimento interviene rimuovendo la cannabis dalla tabella I del Controlled Substances Act voluto da Nixon come base della “war on drugs”, permettendo agli Stati di poter scegliere se legalizzarla o meno risolvendo il conflitto fra norme nazionali e federali che complica il processo riformatore negli Usa sin dai primi referendum del 2012. È prevista una tassazione federale con un’aliquota del 5% che andrebbe ad alimentare un fondo utile anche a finanziare agevolazioni per l’accesso al mercato delle comunità maggiormente colpite dalla repressione sulla cannabis, in particolare quelle afroamericane, ispaniche e asiatiche. Si garantirebbe anche l’accesso al sistema finanziario delle aziende del settore, oggi costrette a gestire il fatturato di 25 miliardi di dollari (dati del 2021) in contanti e bitcoin per l’impossibilità di aprire conti correnti bancari. Infine si prevede la cancellazione retroattiva delle incriminazioni e condanne per reati non-violenti connessi alla marijuana.

Il 43% degli americani vive in uno dei 19 Stati dove la cannabis può essere acquistata legalmente da adulti per qualsiasi uso, in 34 c’è la terapeutica, mentre solo 2 non ammettono neanche l’uso terapeutico del Cbd. Il mercato legale vale un terzo di quello del vino e un quarto di quello della birra e copre circa il 25% della domanda complessiva di cannabis nel paese. Numeri impressionanti per un settore che solo lo scorso anno ha creato 300 posti di lavoro al giorno. Gli impiegati nella filiera sono quasi 430.000, tre volte i dentisti, il doppio dei designer web e quasi il numero di idraulici americani.

Il voto al Senato non sarà semplice perché vige una situazione di parità, 50 a 50, con il voto della vice presidente Kamala Harris che vale solo in caso di pareggio. Harris è stata la prima firmataria della legge quando era senatrice nella scorsa legislatura ma da quando è la vice di Biden ha ammorbidito la sua posizione per venire incontro a quelle del Presidente, da sempre non particolarmente favorevole alla legalizzazione della cannabis.

Il capogruppo democratico al Senato Chuck Schumer, che stava lavorando a un disegno di legge «per porre fine alla proibizione della cannabis» da presentare a metà aprile, sembra sempre essere deciso. Se insistesse potrebbe confliggere con l’iter del More Act ma il buon senso dovrebbe prevalere.

La patria del proibizionismo, i Governi che più di tutti hanno spinto perché le Convenzioni fossero interpretate a sostegno della guerra alle droghe, è a un passo da rimuovere il divieto federale per la cannabis. Sarà interessante capire come gli Usa, che sinora hanno giustificato la legalizzazione a livello statuale con il mantenimento della proibizione federale, si porranno nei confronti degli obblighi internazionali. Come ricordava Grazia Zuffa mercoledì scorso, diventa sempre più centrale confermare l’insita flessibilità delle convenzioni, la loro interpretazione «alla luce del presente» e i mutati scenari internazionali. Una lezione per la Camera dei deputati italiana che ancora non trova la convinzione necessaria per procedere con una proposta di legge che, a ben leggerla, è niente rispetto al More ma sarebbe sicuramente un passo in avanti.