È a partire dal 1816 che René Laennec ausculta il corpo umano per mezzo di uno strumento da lui inventato, lo stetoscopio, un momento decisivo nella storia della medicina che sostituisce l’udito alla vista, contribuendo altresì a mutare il rapporto tra dottore e paziente. Uno snodo decisivo in una storia culturale del pudore ma anche dei sensi: l’orecchio vede meglio dell’occhio. Non essendo più necessario sondare la profondità interna, lo stetoscopio è il contrario del gesto anatomico: basta poggiare un orecchio sul petto o sotto la scapola per sentire la musica degli organi interni, a partire da quelli respiratori, il nuovo linguaggio del cuore. Una voce sottile che il nuovo strumento amplifica e rende per la prima volta udibile senza violare l’involucro corporeo che la protegge. Ora, lo stetoscopio non amplifica un interno già costituito: di questo linguaggio del cuore non esiste infatti alcuna grammatica. Laennec è confrontato a dei segni che restano da decifrare e che sono, in finale, degli artefatti, come ha puntualizzato lo studioso del pensiero medico Jackie Pigeaud.

Potremmo fare un ragionamento simile per i raggi X, che hanno trasformato gli scheletri delle sale anatomiche o delle sale di disegno nelle Accademie in una presenza lattiginosa che fa la sua apparizione quando la lastra è retro-illuminata. Di certo lo stetoscopio gioca un ruolo fondamentale in una genealogia del corpo auscultato e della visione endoscopica, tale da portare fuori l’interno organico senza ricorrere al bisturi. Una tendenza estremizzata dalla convergenza tecnologica che, in campo medico, coinvolge nanotecnologie, bioinformatica, robotica, tecniche geniche e così via. Una visione clinica che, dissociando interno ed esterno, proietta su uno schermo il segreto del nostro corpo, rendendolo pura esteriorità inappropriabile. Sono queste le prime riflessioni davanti – o meglio dentro – Corps étranger (1994) di Mona Hatoum, una video-installazione che mette in mostra l’interno del corpo dell’artista. Le immagini sono proiettate a terra, in una struttura cilindrica – sorta di teatro anatomico contemporaneo – che amplifica il battito del suo cuore attraverso quattro altoparlanti.

Riconosciamo la pupilla, le labbra, la gola finché entriamo in un territorio sconosciuto fatto di mucose umettate in cui, medici di professione a parte, potremmo essere nell’esofago, nello stomaco, nel colon… Come ridefinire la corporeità umana all’era delle Medical humanities? Cos’è un corpo al tempo della biologia sintetica, situata all’incrocio tra ingegneria e biologia molecolare? Sappiamo ancora indicare dove comincia e dove finisce il nostro corpo? Siamo in grado di ricondurre le nuove immagini anatomiche alla rappresentazione di noi stessi, a un’intimità altrimenti inaccessibile? O i nuovi dispositivi tecnologici rendono il nostro corpo non più trasparente ma più opaco, non più familiare ma più alienato, un corps étranger come suggerisce Hatoum, non facilmente conducibile a qualsiasi idea di umano? Di recente hanno provato a rispondere Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor nel film documentario De humani corporis fabrica (2022, allusione al trattato di Andrea Vesalio del 1543), con lunghe sequenze d’interventi chirurgici che molti troveranno insostenibili. Hatoum risponde a modo suo, facendoci vivere un’esperienza straniante dentro i suoi orifizi, rendendoci complici di un viaggio errante lungo più di dieci minuti. Osservando e persino camminando sulla proiezione – cioè su un corpo scrutato fattosi pura astrazione – siamo presi da un brivido, quello della violazione di un’intimità, della vulnerabilità degli organi palpitanti di cui siamo composti e in cui è scomparsa qualsiasi distanza stetoscopica.