«Basiji (miliziani), sepah (pasdaran), siete il nostro Isis» è lo slogan scandito ai funerali dei bambini uccisi a Izeh nel Khuzestan (sud-ovest) in quello che le autorità hanno definito un «attentato terroristico» e i manifestanti imputano invece alle forze dell’ordine.

Intanto nella località di Khomein, a sud di Teheran, gli attivisti hanno dato alle fiamme la casa natale dell’ayatollah Ruhollah Khomeini (1902-1989), il leader religioso che all’indomani della rivoluzione del 1979 ha preso il potere e chiamato gli iraniani alle urne per scegliere tra monarchia e repubblica islamica.

Negli ultimi trent’anni quell’abitazione è diventata un museo. Sui social circolano immagini dell’incendio dell’edificio, che sarebbe stato preso di mira con bottiglie molotov.

NEI GIORNI SCORSI gli attivisti hanno convocato ulteriori manifestazioni per commemorare il «novembre di sangue» del 2019, quando centinaia di persone vennero uccise nella violenta repressione. Per impedire che ci si possa organizzare, le autorità limitano l’uso di internet.

Scioperano i mercanti del gran bazar di Teheran e ad Arak, Tabriz, Mashad, Isfahan, Najafabad, Ilam, Gorgan, Babol e Soumesara. Gli studenti restano in prima linea, ma le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella biblioteca dell’Università di Shiraz, arrestando un attivista.

La 26enne curda Marzieh Yousefzadeh è stata condannata a 15 anni per aver camminato per strada da sola, il 19 settembre, mostrando la foto di Mahsa Amini. Nella provincia del Kurdistan iraniano (ovest) il colonnello dei pasdaran Nader Bairami è stato accoltellato a morte.

NELLA PREGHIERA del venerdì il leader religioso sunnita Molavi Abdolhamid del Sistan e Balucistan (sud-est), ha dichiarato che la popolazione locale – di etnia baluci e fede sunnita, discriminata dalle autorità sciite – «non accetterà compromessi».

Ma in primo piano c’è l’incendio alla casa natale di Khomeini. Non è la prima volta che il simbolo della Repubblica islamica è preso di mira: il 7 giugno 2017 jihadisti sunniti ne avevano attaccato il mausoleo a sud della capitale (le autorità avevano sottovalutato la minaccia del terrorismo jihadista, l’ingresso nel mausoleo non aveva metal detector).

Un attacco di tutt’altra natura rispetto alle molotov lanciate ieri contro la sua casa, che hanno preso di mira l’infrastruttura ideologica del regime. All’opposto gli integralisti sunniti attaccarono il mausoleo perché considerano gli sciiti eretici: venerano i dodici Imam, discendenti dal profeta Maometto attraverso sua figlia Fatima e suoi unici successori legittimi secondo lo sciismo.

IL 1° FEBBRAIO 1979 l’ayatollah Khomeini era stato accolto da milioni di persone al suo ritorno in Iran. Era in esilio dal novembre 1964, dapprima in Turchia e dall’ottobre successivo in Iraq, dove il suo pensiero politico conobbe sviluppi importanti. Durante la rivoluzione del 1978-1979 si trasferì a Parigi, dove fu intervistato dai giornalisti occidentali e divenne noto al largo pubblico.

Non fu un fondamentalista, come spesso capita di leggere, ma un rivoluzionario per almeno due motivi: rivendicò un ruolo politico per il clero sciita, storicamente quietista, e dichiarò che la dissimulazione (taqiya) era stata usata per secoli per proteggere lo sciismo ma «quando i princìpi e il benessere dell’islam sono in pericolo non si deve tacere». E quindi aveva invitato il clero a prendere posizione contro lo scià.

Fu Khomeini, all’indomani della rivoluzione del 1979, a obbligare le donne a indossare il velo nei luoghi pubblici e a impedire loro di ricoprire il ruolo di giudici e di andare allo stadio. Fu lui ad avallare la presa degli ostaggi americani nell’ambasciata degli Stati uniti il 4 novembre 1979, scatenando la rabbia di Washington e quindi il congelamento dei conti iraniani all’estero.

Fu lui a portare avanti la guerra contro l’Iraq, innescata da Saddam Hussein nel settembre del 1980, quando il dittatore iracheno era invece disposto al cessate il fuoco. Una decisione, questa di Khomeini, che portò a un milione i morti iraniani in una guerra che ebbe fine soltanto nel 1988.

Fu lui a condannare a morte lo scrittore angloindiano Salman Rushdie per il romanzo Versetti satanici il 14 febbraio 1989, isolando ulteriormente l’Iran.

A DISTANZA di 43 anni, i ritratti di Khomeini sono ovunque. Sulle pareti degli uffici governativi, accanto all’ayatollah Ali Khamenei che ricopre il ruolo di leader supremo della Repubblica islamica dal 1989.

Oggi gli iraniani devono fare i conti con un isolamento crescente e la mancanza di diritti civili e libertà, da imputare a un sistema giuridico che deve molto al padre della patria. E così le immagini di Khomeini bruciano, come la sua casa.