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Modello contrattuale e sfida economica

Cgil. Cisl e Uil presentano il nuovo modello contrattuale dal titolo: «Un moderno sistema di relazioni sociali». La proposta è un passaggio politico-economico importante. Infatti, l’interventismo del governo ha compromesso […]

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 14 gennaio 2016

Cgil. Cisl e Uil presentano il nuovo modello contrattuale dal titolo: «Un moderno sistema di relazioni sociali». La proposta è un passaggio politico-economico importante. Infatti, l’interventismo del governo ha compromesso il delicato equilibrio tra capitale e lavoro, così come il diritto preso sul serio che, per definizione, è diseguale. La domanda politica, giuridica ed economica è la seguente: il modello contrattuale disegna una cornice coerente? E’ adeguato per affrontare la sfida economica e giuridica europea?

Se la Carta dei Diritti della Cgil disegna un ambiente originale e innovativo per affrontare la trasformazione del lavoro, il modello contrattuale indirizza le policy su livelli salariali, contrattuali e durata dei contratti (4 anni). La proposta punta alla crescita dei salari e non solo alla tutela del potere d’acquisto, con la finalità di sostenere la domanda interna. Gli indicatori considerati fanno riferimento ad una generica dinamica macroeconomica – non riferita solo all’inflazione -, al valore reale dei minimi salariali e agli andamenti settoriali.

Sebbene produttività e Pil siano indicatori di tutto rispetto, sarebbe interessante utilizzare anche la coppia capitale-lavoro. Infatti, il Pil dell’Italia è stato negativo di oltre 9 punti negli ultimi anni, inficiando l’opportunità di agganciare i salari alla dinamica del Pil. Se analizzando la coppia capitale-lavoro, in particolare la quota di reddito da lavoro sul Pil, dobbiamo prendere atto che questa è molto più bassa della media europea. Nella maggior parte dei paesi il reddito da lavoro sfiora il 50% del Pil, mentre in Italia è tra il 42-43%. Se utilizzassimo come benchmark i migliori paesi europei, la quota di reddito destinato al lavoro dovrebbe crescere di parecchi punti. L’effetto macroeconomico sarebbe positivo: le imprese anticiperebbero gli investimenti e quindi la produttività crescerebbe.

Si tratta dell’effetto Ricardo descritto da S. Labini, cioè un modo diverso di declinare l’equilibrio macroeconomico, che non è solo aumento-diminuzione del PIL. Di quanto devono crescere i salari? Il punto di arrivo dovrebbe essere l’Europa. Se facciamo 100 il salario medio Ocse, l’Italia scivola da 84,6 del 2000 a 77 del 2013, la Germania da 100 a 96, la Francia da 86,3 a 90,4. Un ritardo che denuncia le politiche deflattive adottate dai governi e perseguita sciaguratamente dalle imprese. Una buona politica dei redditi dovrebbe avere come obbiettivo non solo la distribuzione dei redditi, ma considerare anche una dinamica salariale adeguata per raggiungere i paesi di riferimento. Il sistema produttivo nazionale è malconcio. Non è possibile chiudere il gap in poco tempo, ma il punto di arrivo può essere programmato.

L’argomentazione vale anche per gli orari di lavoro: in Italia si lavora troppo, ben oltre la media europea: 1.752 Italia, 1.479 Francia e 1.397 Germania. C’è un ulteriore aspetto da considerare: la tempistica.

Quattro anni possono essere tanti o pochi; dipende dal ciclo economico che, per definizione, non è mai uguale a se stesso. Servirebbe più flessibilità per valutare cosa accade tra un contratto e l’altro. Il modello contrattuale è un pezzo importante della politica economica.

Se il sistema economico è in grado di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione, il profilo del progresso tecnico, del reddito, anche del fattore lavoro, tenderà a essere virtuosa nel lungo periodo. Una sfida per alcuni versi affascinante.

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