E tre. Dopo l’Alviero Martini spa e la Giorgio Armani Operations spa, il Tribunale di Milano ha messo sotto inchiesta per caporalato nell’alta moda un altro marchio vip: la Manufactures Dior srl, ramo produttivo italiano del colosso del lusso francese. Come negli altri due casi i magistrati milanesi considerano l’azienda «incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo». L’accusa è di aver massimizzato i profitti risparmiando sul costo del lavoro, sulla sicurezza dei dipendenti e sulle procedure fiscali. Le indagini, come negli altri due casi, sono coordinate dai pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e condotte dai carabinieri di Milano.

BORSE CHE NEI NEGOZI Dior venivano vendute a 2.600 euro costavano al colosso francese 53 euro. A produrre quelle borse erano operai cinesi sfruttati negli opifici milanesi e brianzoli. La Manufactures Dior srl avrebbe colposamente agevolato questi meccanismi di sfruttamento senza verifiche sul corretto rispetto delle norme sul lavoro. L’amministrazione giudiziaria disposta dal Tribunale servirà a “sanare” questi rapporti con le imprese fornitrici e relativi subappalti. Come negli altri due casi l’indicazione del Tribunale di Milano, che ormai si sta specializzando in questi casi di caporalato, è indurre le aziende a sanare le irregolarità e avviare modalità corrette per il futuro.

DURANTE LE INDAGINI, avviate a marzo 2024, sono stati controllati quattro opifici individuando in particolare due società attive nella produzione di prodotti di pelletteria: la Pelletterie Elisabetta Yang e la New Leather srl. In questi due capannoni gli operai erano impiegati in «condizioni di lavoro tali da integrare gli estremi dell’illecito sfruttamento del lavoro», scrivono i carabinieri nella nota alle indagini. Durante l’ispezione nell’opificio di Opera, nel milanese, i carabinieri avevano trovato una coppia cinese con 17 operai cinesi e 5 filippini. Gli operai lavoravano tra solventi e colle infiammabili senza alcuna protezione, su macchine manomesse appositamente per aumentare la capacità produttiva a discapito della sicurezza dei lavoratori. Gli operai, in buona parte senza un contratto regolare, mangiavano e dormivano nel capannone dove c’erano un cucinino, sette stanze dove dormire, due bagni in condizioni igieniche da «minimo etico», scrivono i magistrati.

C’È UN PARTICOLARE che raccontano i carabinieri. Gli operai cinesi trovati all’interno del laboratorio sono sembrati ai militari «preparati a dichiarare di non essere impiegati nell’azienda, adducendo le più disparate e inverosimili motivazioni circa la loro presenza all’interno dei locali della pelletteria». Avevano quindi ricevuti istruzioni per mentire in caso di controlli. Da una analisi dei consumi elettrici di quel capannone i carabinieri hanno potuto constatare le attività lavorative fossero a pieno regime dalle 6.30 del mattino fino a notte fonda, comprese alcune festività come il giorno di Pasqua. In un altro opificio ispezionato, a Cesano Maderno, in provincia di Monza e Brianza, all’arrivo dei carabinieri tre operai cercarono di scappare scavalcando la recinzione, poi fermati dai militari. Anche in quel capannone le condizioni di lavoro erano secondo i carabinieri da caporalato e non all’oscuro del committente. «Non si tratta di fatti episodici e limitati» è scritto nell’ordinanza «ma di un sistema di produzione generalizzato e consolidato».

LUNGO LA FILIERA dell’esternalizzazione dei processi produttivi avveniva lo sfruttamento descritto nelle carte. Dopo le due precedenti inchieste nel mondo dell’alta moda il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia aveva parlato della possibilità di avviare un tavolo sul settore come fatto ad esempio per il settore della logistica. Anche nella moda le indagini dicono che non si tratta di episodi isolati, ma di modalità di sfruttamento e guadagno molto diffuse e ben oliate. L’obiettivo del presidente del Tribunale Roia è quello di arrivare a sottoscrivere con la Prefettura di Milano, l’ispettorato del lavoro e gli operatori del settore un protocollo per fermare lo sfruttamento nel settore della moda.