Le borse di lusso Made in Italy fatte dagli operai cinesi sfruttati nelle fabbrichette lombarde. Il Tribunale di Milano ha commissariato l’azienda di alta moda specializzata in borse e accessori Alviero Martini spa. Una misura di solito applicata alle aziende agricole accusate di caporalato. I magistrati milanesi l’hanno ritenuta «incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo».

IL SISTEMA si reggeva sull’abbattimento dei costi per massimizzare i profitti grazie allo sfruttamento dei lavoratori stranieri e al non rispetto delle regole. Produzioni «frutto della sapiente lavorazione Made in Italy» scrive la società sul proprio sito internet, ma dietro l’etichetta tricolore c’era una catena di subappalti dove accadeva di tutto. Fondata nel 1991 a Milano, sede «nella splendida cornice dei Navigli», secondo i pm l’Alviero Martini non aveva «mai effettuato ispezioni o audit sulla filiera produttiva per appurare le reali condizioni lavorative e le capacità tecniche delle aziende appaltatrici».

GLI INVESTIGATORI hanno scoperto che la casa di moda aveva affidato «l’intera produzione a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi». Le aziende appaltatrici avevano «solo nominalmente un’adeguata capacità produttiva» e si rivolgevano a loro volta a opifici cinesi che impiegavano manodopera irregolare in condizioni di sfruttamento. Non è la prima volta che accade nel mondo della moda, anche di quella alta che si fregia di fare tutto in Italia. In questo caso le prime ispezioni sono del lontano 2015. «Accertamenti sulle modalità di produzione, confezionamento e commercializzazione dei capi di alta moda»: così i carabinieri sono arrivati agli opifici gestiti da cittadini cinesi in provincia di Milano, Monza, Brianza e Pavia.

GLI OTTO OPIFICI controllati sono risultati tutti irregolari. 197 i lavoratori identificati, 37 quelli occupati in nero e non in regola con il permesso di soggiorno. L’elenco degli illeciti è da manuale: pagamenti sotto soglia, orario di lavoro irregolare, ambienti di lavoro insalubri, violazioni sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, nessuna formazione. Gli operai e le operaie erano alloggiati in dormitori realizzati abusivamente in condizioni igienico sanitarie «sotto il minimo etico».

GLI INDAGATI per caporalato sono 10 tra i titolari degli opifici. Le testimonianze raccolte dagli investigatori riportano indietro l’Italia ai primi decenni del secolo scorso. «Vengo pagato 1,25 euro a tomaia» racconta un lavoratore. «Durante la settimana dormo sopra la ditta. In una giornata lavorativa produco circa 20 paia di scarpe. Percepisco un bonifico mensile di circa 600 euro». I lavoratori avevano paghe al di sotto della soglia di povertà, poco più di 6 euro all’ora. Sono stati trovati anche seminterrati trasformati in dormitori. Per aumentare la velocità delle produzioni ad alcuni macchinari erano stati rimossi i dispositivi di sicurezza per impedire che il lavoratore possa rimanere impigliato.

GUARDANDO I CONSUMI energetici gli investigatori si sono accorti di anomali picchi notturni perché gli operai venivano impiegati la notte per eludere i controlli diurni. Prendo «50 centesimi ogni fibbia rifinita. Non sono mai stato visitato dal medico dell’azienda» racconta un altro operaio. Il caso più tragico: un lavoratore impiegato in nero, morto schiacciato da un macchinario, assunto il giorno dopo per tentare di camuffare l’irregolarità.

SEGUENDO LA CATENA dei subappalti, per un prodotto venduto a 350 euro l’opificio cinese prendeva 20 euro, l’azienda appaltatrice altri 30, il resto andava tutto all’Alviero Martini. Secondo la Procura «si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business». L’Alviero Martini si difende: «Tutti i rapporti di fornitura sono disciplinati da un preciso codice etico a tutela del lavoro e dei lavoratori al cui rispetto ogni fornitore è vincolato» scrive la società in una nota. «Laddove emergessero attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune». Non si erano accorti di nulla.