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Misure alternative, un giardino per coltivare «fiori blu»

Misure alternative, un giardino per coltivare «fiori blu»

L'incontro Antonio Amato è stato fino al 2020 responsabile dell’Area Misure Alternative alla Detenzione dell’ufficio interdistrettuale di Bologna; con lui ha preso avvio la collaborazione con l'associazione Gruppo elettrogeno: «I fiori blu» è un progetto multidisciplinare di musica-teatro che prevede la partecipazione anche di persone sottoposte a misure alternative alla detenzione

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 aprile 2022

«Se in campagna elettorale rivendicassi il fatto che la maggior parte dei detenuti in Italia, attualmente, sono liberi e non dietro alle sbarre, starei compiendo il mio suicidio politico. Al 31 dicembre del 2021 erano 54mila i detenuti, di cui 37mila con una condanna definitiva. Mentre i presi in carico dall’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia per le «misure alternative alla detenzione» (da qui MA) erano 68mila. Spietati sono i dati che dovrebbero attestare al carcere una qualche funzione di reinserimento sociale (art. 27 della Costituzione), la recidiva è del 70%, mentre nelle MA è al 19%, (al 30% per chi è segnalato come tossicodipendente). Sarebbe un punto a favore del nostro ordinamento giuridico ma che poco conviene esplicitare quando tira il vento giustizialista».

Antonio Amato è un uomo pacato e cordiale, per quarant’anni, fino al 2020, è stato responsabile dell’Area Misure Alternative alla Detenzione dell’ufficio interdistrettuale di Bologna (UIEPE), la sua voce è calma e piena, sa che l’argomento non è semplice, mi racconta che perfino chi gravita nell’area dei servizi sociali pensa che le MA siano come i domiciliari: «Si sviluppano in Europa a inizio ‘900, in Italia arrivano nel 1975, anni non casuali. Il nostro ex Presidente del Consiglio (Berlusconi, ndr) ha fruito dell’affidamento, hai la possibilità di essere messo in affidamento in prova al servizio sociale, qualora venissi condannato fino a 4 o 6 anni (se tossicodipendente). In altre parole chiedi di scontare la pena senza passare dal carcere, il Tribunale di Sorveglianza lo concede se hai il requisito giuridico e dopo un’indagine socio-familiare dell’Ufficio Penale Esterno».

Per accedere ci sono dei criteri, come avere un’abitazione o essere accolto da una comunità, degli orari, non frequentare pregiudicati, impegnarsi in stabile lavoro o nella sua ricerca. Sono misure che possono essere richieste anche dal carcere se si sono scontati metà o i due terzi della pena o residuano 4 anni, resta però provvedimento poco conosciuto. Antonio parla delle tante casistiche che possono occorrere, mi racconta aneddoti su Sante Notarnicola che ha seguito con il suo ufficio o con esponenti delle BR: «Le persone vengono giudicate dal tribunale, io dovevo valutare se avevano le risorse e le capacità per iniziare un nuovo percorso di vita subito. Per tre anni sei in prova, alla fine della quale c’è una relazione conclusiva in cui dici come si è svolto tutto il periodo di affidamento. Se la valutazione è positiva il tribunale considera estinta la pena e tutte le altre obbligazioni. Si può anche tornare in carcere. Pavarini parlava di una cultura della giustizia laica e disincantata, con la possibilità per chi ha sbagliato di reinserirsi, ho accantonato la seducente idea degli anni ‘80 di liberarsi dal carcere, la giustizia assoluta delle utopie non esiste, non ci resta che combattere l’ingiustizia assoluta e ridimensionarne alcuni aspetti deteriori».

Antonio ha proposto nel 2012 a Gruppo Elettrogeno di lavorare con le MA, ed è nato il progetto «I fiori blu», in pochi mesi avevano intercettato una decina di persone adatte ai laboratori: «Partecipare o no a questo tipo di iniziative non rientrava nelle mie valutazioni, sono contrario alla vocazione pedagogica dell’ io ti spiego, io ti insegno, cosa che accade nel carcere in cui il detenuto viene valutato positivamente se, per esempio, partecipa alla scuola. Il percorso laboratoriale è un arricchimento in termini di relazioni e contaminazione, la maggior parte della popolazione carceraria ha vissuto in condizioni di marginalità. Incontrare gli altri dove non solo vengono applicate delle regole, ma anche la cura, lo sguardo, e poi sentirli discutere di Ulisse e di Telemaco, è commovente. Quando li sentivo chiamare per nome mi giravo per capire chi fosse, perché per noi dell’istituzione pubblica, sono l’affidato, il semilibero, il detenuto…».

Nelle successive edizioni Antonio ha coinvolto anche gli assistenti sociali del suo ufficio e operatori di altri servizi affinché incontrassero i loro affidati in modo informale, recitando insieme: «Rientrati in ufficio si sentivano rigenerati, l’approccio con l’utenza cambiava pur mantenendo la giusta distanza, considera che dobbiamo comunque ragionare con grandi numeri, fare statistiche, dar conto alla magistratura e al ministero, spesso il rapporto con l’utenza sconta tutta questa parte burocratica amministrativa».

Nel 2014 è stata introdotta anche la «messa alla prova», cioè la sospensione del procedimento penale, evitando il processo: «Prima esisteva solo per i minori, quindi ci siamo confrontati con un altro tipo di utenza, non più i marginali con vite inenarrabili ma con universitari, medici, amministratori, che commettevano delle violazioni, simulazioni di reato, piccolo spaccio. Trovi lo psicanalista che fa omissione di soccorso, ti rendi conto che c’è una linea sottile che divide il bene dal male e non devi avere necessariamente un vissuto abbandonico per arrivare dall’altra parte».

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Il progetto dell’associazione Gruppo elettrogeno

Di domenica la palestra dell’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza, in via Castiglione a Bologna, diventa un teatro, un teatro particolare, dove nelle circa 4 ore di prove nascono storie e si intrecciano nel profondo destini che, all’apparenza, sembrano distanti, soprattutto dove crollano terribili stereotipi. Gruppo Elettrogeno è un’associazione di promozione sociale che in passato ha lavorato all’interno del carcere, dal 2012 insieme all’Uiepe di Bologna ha avviato I fiori blu, un progetto multidisciplinare di musica-teatro che prevede la partecipazione anche di persone sottoposte a misure alternative alla detenzione (da qui MA) o ai «messi alla prova» (si veda approfondimento a fianco). Quando mi hanno invitato ho temuto si potesse trattare del classico saggio di fine corso, dove mettere in scena la diversità/disabilità in quanto tale, come alcune associazioni di volontariato, le loro forzature, certi obblighi che sembrano dettati da una spinta inclusiva ma che in realtà vorrebbero modellare ogni tipo di vissuto su quello che, anche inconsciamente, si riconosce come dominante. Una vessazione nella vessazione, dopo magari anni di punizioni negli istituti penitenziari e nemmeno l’ombra del reinserimento sociale. Presto mi sono reso conto che non era così.

Martina Palmieri è la regista che insieme ad Antonio Amato ha avviato il progetto che quest’anno è alla sesta edizione: «I nostri laboratori sono un luogo dove esprimersi senza avere un ruolo, non voglio sapere che tipo di reato c’è dietro alla persona, per me è importante valorizzarne l’identità artistica. Se qualcuno vuol parlare della sua storia è una sua propria decisione». Nel gruppo formato da una quindicina di persone si nota subito una grande eterogeneità di età, classe sociale, vissuto, è una comunità di persone in cui partecipano disabili, intere famiglie sia con MA che senza, in quanto I fiori blu è aperto anche a operatori sociali, familiari finanche minorenni: «L’importante è che in scena non si distingua chi è in MA o chi nella vita fa l’operatore, al limite puoi capire l’attore più navigato. Nei laboratori in carcere ci sono solo detenuti che non possono nutrirsi di altre relazioni, il che può fare male all’animo», dice amara. Martina fa riferimento al processo di prisonizzazione, in cui il detenuto, specialmente quello più fragile, fa suo ogni codice del carcere, l’abbigliamento, il linguaggio, spersonalizzandosi. Nel gruppo c’è anche chi ha disabilità visiva: «Abbiamo deciso di creare con chi si trova in una condizione particolare della propria vita, perché se vuoi raccontare il mondo per quello che è, hai bisogno di vissuti che siano più vicini alla realtà. Sul palco ci sono solo attori e attrici. Spesso ci viene chiesto, ma chi sono i detenuti? Che poi non sono detenuti, ma almeno non vai a soddisfare quella curiosità, mentre se vai a vedere uno spettacolo in carcere è tutto molto chiaro».

Le prove iniziano con una sorta di rituale, un training del corpo-voce, c’è silenzio e concentrazione per – spiega Martina – tirare via le sensazioni brutte che magari si portano dietro, per raggiungere uno stato «zero» da cui iniziare a lavorare. Martina sin dal primo momento li scaraventa dentro all’attività, senza troppi preamboli, un modo per buttare giù tante barriere, fa delle proposte di pratica teatrale, come improvvisare su un tema o sulla suggestione di un’opera, senza presentare il testo di riferimento che giunge solo attraverso alcune frasi o contenuti. Quest’anno è il Simposio di Platone, con uno sguardo ironico: «Potrebbe sembrare complicato, ma il Simposio arriva in punta di piedi, non se ne rendono conto ma a un certo punto, quando improvvisano, ci sono già delle parole che evocano l’opera». Dall’improvvisazione, da come è stata affrontato un argomento, parte il lavoro di scrittura scenica, gli attori si ritrovano autori con Martina che tesse una scrittura praticamente collettiva: «La struttura drammaturgica deve valorizzare ogni attore. Per questo chiedo loro di prendere posizioni su certi argomenti che riguardano il testo, ciò che ne esce è il frutto dei loro ragionamenti, delle loro incazzature e del loro sentire, un lavoro lungo, però quello che viene fuori appartiene oggettivamente a tutti». Il punto, da quanto ho capito, è reinventare la storia del Simposio ma anche quella emotiva dei partecipanti.
Al termine del percorso laboratoriale ci sarà lo spettacolo (13 e 14 giugno all’Arena Orfeonica), una macchina di produzione impegnativa, basti pensare che Dite alle Sirene che ripasso andato in scena al Teatro Duse nel 2018, ha portato sul palco oltre 70 persone. Quasi tutte le edizioni hanno visto la partecipazione di Paolo Fresu, quest’anno c’è stato a marzo una tappa di lavoro al TPO con lo spettacolo di Pierpaolo Capovilla e Paki Zennaro su Finché galera non ci separi, le poesie di Emidio Paolucci.

Tasto dolente sono sempre le risorse economiche, è un progetto che richiede continuità, tanto che la speranza anche dei partecipanti è che diventi una compagnia, ma i contributi pubblici o di qualche privato non riescono a coprire i professionisti che, per lo più, lo fanno a titolo gratuito, per un lavoro che oltre ad essere artistico, incide positivamente sull’ambito sociale: «Non sopporto più la parola inclusione, quand’è che la pratichiamo? La fatica di questo progetto è che l’inclusione la vuole praticare davvero, non fa notizia perché ora non lavoriamo dentro al carcere».

Mariolina è una psicologa ma in teatro è solo e unicamente un’attrice: «Al principio avevo ancora una visione romantica di chi ha avuto un problema con la giustizia, poi sono emersi aspetti più vivi, anche parecchio dissonanti dall’idea originaria. Nelle persone in MA c’è sempre una qualità attoriale marcata, una presenza scenica, una forte capacità di attirare l’attenzione con il corpo. Se il grosso del lavoro per un attore è togliere le sovrastrutture, nel loro caso non c’è nulla da togliere, la capacità espressiva è meno mediata dal tentativo di raccontare o muoversi bene». Nell’improvvisazione si sciolgono le corazze, uno degli attori per esempio parla dei colori del carcere, il grigio, il verdolino, ma non c’è l’autobiografia in senso stretto, è sufficiente una scossa del testo. Faccio notare che forse, visto che notoriamente nelle patrie galere finisce sempre la povera gente, nella vita vera per cavarsela queste persone hanno dovuto effettivamente improvvisare in parecchie occasioni. L’importante è che attraverso i personaggi, per affinità o per contrasto, vengano fuori parti di sé: «Alcuni, al momento dei saluti, mi hanno domandato: stanno applaudendo me? Di tutte queste persone ricordo chiaramente i primi giorni, la maggior parte restano, è un gruppo che nasce come uno spazio teatrale in cui tutti i corpi, tutti i generi, c’è tanta attenzione a ogni sfumatura. In questo senso possiamo dire che anche il lavoro è fluido».

Le ultime parole sono di Issam, un ex MA che da tanti anni frequenta I fiori blu: «Per me questo gruppo è un piccolo giardino, dove ci sono tanti fiori blu, io mi sento uno loro, sento il calore del sole, l’aria e l’acqua. Mi sento nato lì come si nasce in un Paese del mondo, non c’era un perché quando ho cominciato».

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