Pubblicato a puntate su un settimanale femminile tra il 1966 e il 1967 e in volume nel 1968, In punta di penna appartiene a quei «romanzi di intrattenimento» di Mishima che Feltrinelli va proponendo da diversi anni al pubblico italiano (traduzione di Alessandro Clementi degli Albizzi, pp. 176, € 16,50).

Come altri libri della stessa categoria già pubblicati (Musica, La scuola della carne, Vita in vendita), anche questo offre aspetti inediti che aggiungono nuovi tratti alla complessa figura dell’autore. Mishima era animato da numerose ambizioni – essere riconosciuto come uno dei massimi scrittori mondiali, ottenere la perfezione fisica, sovvertire l’ordine costituito giapponese – ma ve n’era una che le comprendeva tutte: l’aspirazione alla totalità. Amava sconfinare in ogni direzione, e imprimere il proprio sigillo su qualsiasi prospettiva la sua febbrile sete di esperienze gli aprisse. Soprattutto negli anni Sessanta, il decennio che precede la sua morte per suicidio dopo il fallito assalto al Quartier Generale di Autodifesa di Tokyo, non sembra esserci limite al raggio delle sue attività: attore, regista, drammaturgo, bodybuilder, fondatore di un proprio esercito personale, modello fotografico, cantante.

La scoperta delle opere cosiddette minori di Mishima ci mostra che questa sua vocazione alla totalità è presente anche nella sua produzione letteraria. Anche come scrittore Mishima voleva essere tutto, e per questo nello scrivere per riviste commerciali sperimentava nuovi generi con una libertà che il suo ruolo di esponente di jun bungaku (letteratura pura) non gli avrebbe permesso, e sempre con la volontà di eccellere.  Infatti, anche in questa produzione seriale rivolta a lettori e lettrici di riviste popolari, Mishima, pur attento a trovare uno stile scorrevole che non scoraggiasse un pubblico dai gusti più facili, non abbassava mai la qualità della scrittura. Anche se In punta di penna è una storia di intrighi amorosi pensata per essere letta tra pagine di moda e cucina, ha una struttura tutt’altro che banale. È un romanzo epistolare, scritto in un’epoca in cui, come sottolinea l’autore, lo scambio di lettere non era più in voga, soppiantato dalle conversazioni telefoniche. Questo espediente era però usato da Mishima con un senso del ritmo e del gioco narrativo che lo rendeva attuale, intrigante e sofisticato. Mishima aveva saputo dunque cogliere, sotto l’apparenza di un format desueto, una certa aria del tempo fatta di moda, gusto del gossip, e soprattutto di un’estetica contaminata ormai dalla televisione.

Il Mishima nazionalista con lo sguardo rivolto al passato e ai corruschi splendori del Giappone guerriero era in realtà anche un uomo capace di leggere il presente, tenersi al passo con esso, e addirittura anticipare il futuro.

Il romanzo narra le vicende di cinque personaggi con un tono boulevardier che denota la profonda familiarità di Mishima con la letteratura, il teatro e il cinema francese: Mamako, donna sui quarantacinque anni, proprietaria di una scuola di inglese; Tobio, suo coetaneo, stilista di successo, Mitsuko, impiegata ventenne; Takeru, ventitre anni, ascensorista che aspira ad affermarsi come regista teatrale, e infine Toraichi, giovane pigro e maldestro.  Innamoramenti e amori, congiure e segreti, ricatti e vendette sono i materiali che alimentano l’intreccio. A tratti si sfiora il dramma, ma ogni conflitto tra i personaggi viene rapidamente assorbito nei toni della commedia, abilmente resi dalla traduzione di Alessandro Clementi degli Albizzi.   

Il titolo italiano, In punta di penna, è stato scelto probabilmente per sottolineare il tono elegante e ricercato del romanzo, e anche per la difficoltà di rendere il titolo originale, che tradotto letteralmente sarebbe «Lezioni di Mishima Yukio sulla composizione di lettere». Come si può notare, nell’edizione giapponese il nome dello scrittore è parte integrante del titolo. Ma ancora più interessante è il sottotitolo che compariva solo nella serie a puntate, e cioè «Girotondo di lettere». Il termine rinbu che qui ho reso con «girotondo», è quello che in giapponese traduce il titolo del film di Max Ophüls La ronde, tratto dalla commedia Girotondo di Schnitzler. Mishima, che aveva recensito il film, conosceva bene entrambi.

La riflessione di Mishima su La ronde parte dalla sua esperienza di spettatore di una rappresentazione di bunraku (teatro di burattini) del dramma Ninokuchimura, avendo trovato questa forma molto più efficace della versione kabuki, in cui era interpretato da attori reali. Secondo Mishima, anche la commedia di Schnitzler avrebbe fatto una riuscita migliore se rappresentata da burattini. A suo parere, la vanità delle passioni umane, che è il vero tema del testo di Schnitzler, interpretata da attori in carne e ossa era meno convincente. Mentre nella commedia il cinismo dello scrittore risultava pienamente efficace, nel film la presenza di attori spostava l’accento dal fatuo gioco delle passioni all’urgenza del desiderio sessuale. Penso che sia stata una riflessione di questo tipo a influenzare la scrittura di In punta di penna. Mishima ha spogliato i suoi personaggi di quel bagaglio di umanità che pure in altre opere ha saputo profondere, puntando in questo caso all’astrazione. Disarticolati e lunari, monadi chiuse nel proprio egoismo, esprimono a perfezione la «amara, amarissima filosofia» dello scrittore, e cioè «che le persone non coltiveranno mai un serio interesse nei confronti dell’altro, e se lo fanno è solo perché ne va di mezzo un qualche loro personale interesse». Cinico come Schnitzler, e altrettanto fascinoso e pungente.