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Miseria e corruzione, i tragici esodi verso gli Usa visti da Sud

Miseria e corruzione, i tragici esodi verso gli Usa visti da SudLa carovana dei migranti dall'Honduras – Ap

Migrazioni Nel passato, pur disorganizzati, alla spicciolata e pagando con violenze ed estorsioni sul percorso, gli emigranti almeno alla frontiera messicana con gli States ci arrivavano. Stavolta quei quasi diecimila honduregni sono appena riusciti ad attraversare la frontiera con il Guatemala, per poi essere fermati e dispersi da polizia ed esercito

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 3 febbraio 2021

L’emigrazione verso gli Usa da quelle che un tempo venivano chiamate le banana republics dell’istmo centroamericano, risale a molti decenni addietro. Ma più è cresciuta la miseria e più il fenomeno si è ingigantito, alimentando un’infinita tragica letteratura video-informativa. Fino ad arrivare alle carovane organizzate nell’ultimo paio d’anni, che via via si ingrossavano sul percorso nell’illusione che l’unione avrebbe fatto la forza.

Quella più recente si è rivelata purtroppo la più disperata, partita (come sempre) dall’Honduras, il paese che contende al Nicaragua (e dopo Haiti) il primato della povertà in America Latina (oltre che della corruzione). Infatti nel passato, pur disorganizzati, alla spicciolata e pagando con violenze ed estorsioni sul percorso, gli emigranti almeno alla frontiera messicana con gli States ci arrivavano. Stavolta quei quasi diecimila honduregni sono appena riusciti ad attraversare la frontiera con il Guatemala, per poi essere fermati e dispersi da polizia ed esercito.

L’avvento di Trump con la costruzione del suo muro e l’illusione di qualche modesto sostegno finanziario ai governanti della regione (talvolta, di fatto, ad personam) ha indotto pure il governo progressista messicano di Manuel Lopez Obrador a compiacerlo, sbarrando la propria frontiera sud.

Inesorabilmente, in quello che potrebbe rivelarsi per un pezzo l’ultimo tentativo di fuga, la gran parte di quei disperati sono stati costretti a tornare indietro. Stiamo parlando di fatto di due narco-stati, l’Honduras e il Guatemala, privi di ogni istituzionalità e dove ampie fette della popolazione non hanno di che vivere, e, come se non bastasse, annichilite dalla violenza delle bande giovanili, legate anch’esse alle droghe e alla criminalità organizzata.

La pandemia e i due devastanti uragani in quindici giorni dello scorso novembre hanno dato il colpo di grazia. Nel minuscolo El Salvador il fenomeno dell’emigrazione è stato poi storicamente ancora più massiccio (verso gli Usa ma anche nei paesi latini europei) per la sua altissima densità di popolazione, fra le più elevate al mondo. Solo che ora nessuno vuole più neppure i salvadoregni, nonostante siano apprezzati per la loro particolare laboriosità.

E il Nicaragua? Da sempre il paese di Sandino non ha mai avuto una particolare vocazione di emigrare: paese immenso, con la stessa popolazione del formicaio salvadoregno (sei volte più piccolo); ricco di risorse e con una (fino a un certo punto) sana filosofia di non volersi ammazzare di lavoro. Nel caso poi ce ne fosse stata la necessità, la meta era verso sud, in Costarica, un tempo considerato la Svizzera del Centro America. E solo per lavori agricoli stagionali.
Solo negli anni ’80, durante la Rivoluzione sandinista ci fu un esodo verso il «gigante del nord», a Miami. Inizialmente dei seguaci della dittatura somozista o comunque di facoltosi membri dell’oligarchia locale che fuggivano dalla rivoluzione.

Mentre col prolungarsi della guerra con i contras e il peggioramento delle condizioni economiche, anche settori delle classi medio-basse presero quella strada; ma partendo dall’aeroporto di Managua. Non è del resto un caso che proprio in Costarica si siano riparati la gran parte delle decine di migliaia di nicas «auto esiliatisi», soprattutto giovani, dopo che il «fu» comandante della rivoluzione e oggi di nuovo presidente Daniel Ortega ha convertito il Nicaragua in uno stato di polizia all’indomani della rivolta popolare del 2018. Con le autorità costarricensi che, pur a denti stretti, non si sono strappate le vesti di dosso per questo massiccio esodo dal proprio vicino di casa.

Non si devono poi dimenticare, a mo’ di inciso, tutti quegli emigranti che la gestione orteguista ha bloccato fino a non molto tempo fa nel loro percorso verso il nord, alla frontiera fra Costarica e Nicaragua. Si potrebbe comprendere per quella parte di loro, cubani (provenienti via terra dalla Colombia e da Panama dove erano giunti in aereo), in ragione dei rapporti di Ortega con L’Avana.

Ma per tutti quegli africani partiti dalle loro terre di origine e che via Brasile avevano inaugurato questo nuovo flusso di speranza verso il settentrione? Diversi dei quali naufragati nel Pacifico per tentare di ovviare ai posti di blocco terrestri dei servizi di sicurezza nicaraguensi? Certo che in questo modo Ortega qualche simpatia a Washington se l’era guadagnata.

Sta di fatto che il fenomeno dell’emigrazione è diventato di massa, inarrestabile e, con queste barriere, irrisolvibile. Cosa aspetta allora Washington a inaugurare una politica di riequilibrio e di sostegno per fare in modo che i peones del proprio storico «cortile di casa» possano almeno sopravviverci in quel cortile?
In verità Obama qualche centinaio di milioni di dollari li aveva destinati per le economie dei presidenti del Centro America. Salvo essere stato poi il presidente Usa che più deportazioni ha disposto dal suo paese.

C’è da augurarsi che Joe Biden prosegua sulla strada inaugurata nel giorno del suo insediamento, andando ben oltre la sospensione della costruzione del “muro” col Messico.

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