Esisteranno ancora gli Stati “Uniti” il 20 gennaio 2025, quando il nuovo presidente dovrebbe insediarsi? Forse sì, ma forse anche no: i prossimi 18 mesi potrebbero far esplodere la solida costruzione istituzionale creata a Filadelfia nel 1787 e sopravvissuta a una sanguinosa guerra civile tra il 1861 e il 1865. L’ipotesi più probabile è che ci siano un Congresso e un presidente ma il paese sia in preda alla guerriglia e che il terrorismo di estrema destra attacchi gli uomini e le sedi delle istituzioni responsabili della mancata rielezione di Donald Trump.

Sì perché a partire da martedì prossimo, quando Trump si presenterà davanti a un giudice federale per rispondere di una decina di reati legati ai documenti segreti che si è tenuto in casa dopo la fine del suo mandato, lo scontro fra il presidente fellone e la giustizia americana sarà senza esclusione di colpi. Si tratta solo dell’inizio di una lunga serie di battaglie politico-legali nei prossimi 17 mesi.
La sua tattica abituale è entrata in azione l’altra notte, all’annuncio del rinvio a giudizio: gridare alla persecuzione, al complotto dei democratici, alla strumentalizzazione politica della giustizia. Si tratta di un copione recitato mille volte con successo e che per il momento continua a funzionare presso i suoi seguaci: minoranza nel Paese ma minoranza numerosa, fanatica e armata. Stavolta la retorica di Trump potrebbe rivelare i suoi limiti ma lo vedremo soltanto quando inizieranno le primarie repubblicane per la candidatura alla presidenza, nel gennaio 2024.

In realtà la campagna elettorale è già iniziata da qualche settimana e ci sono una mezza dozzina di politici repubblicani che aspirano alla candidatura. Nessuno ha però serie possibilità di superare Trump nel voto popolare nemmeno se l’ex presidente venisse arrestato, condannato e incarcerato (c’è un precedente: nel 1920 il candidato socialista Eugene Debs fece la sua campagna dalla cella dov’era stato rinchiuso per sedizione).

Quindi Trump si troverà nella posizione di un candidato accusato dal dipartimento della Giustizia di una serie di reati lunga come l’autostrada del Sole. Una situazione che ricorda un po’ troppo da vicino ciò che accade nella Russia di Putin anche se in realtà non si tratta affatto di una persecuzione politica, semmai del contrario: i procuratori federali democratici sono stati assai lenti e timidi nell’avviare le azioni giudiziarie, temendo appunto le reazioni dei sostenitori di Trump.

L’annuncio di giovedì notte si aggiunge ad altri procedimenti in corso: a New York Trump deve rispondere di 34 violazioni di legge nel processo per i pagamenti sotto banco a due donne, tra cui una pornostar, che minacciavano di rivelare i loro rapporti con lui durante la campagna elettorale del 2016.

Ci sono poi almeno altri due processi che lo attendono: quello per i tentativi di manipolare i risultati elettorali in Georgia nel 2020, che potrebbe aprirsi in autunno, e quello, ben più esplosivo, per l’assalto al Congresso il 6 gennaio 2021 nel tentativo di restare al potere dopo aver perso le elezioni. Le indagini su quest’ultimo sono andate fino ad oggi estremamente a rilento e non è detto che si concludano con un rinvio a giudizio, malgrado le tonnellate di prove schiaccianti raccolte prima dalla commissione di indagine della Camera e poi dal procuratore speciale Jack Smith. I democratici potrebbero semplicemente rinunciare, o rinviare, l’azione legale su questo evento per il timore di precipitare il paese nel caos.

In tutti questi casi Trump, un po’ per arroganza caratteriale e un po’ per fiuto politico, vuole continuare a minacciare sfracelli contando sul rapporto particolare instaurato con i suoi seguaci. Un rapporto più simile a quello del leader di una setta religiosa che a quello di un capo politico. Il 70% degli elettori repubblicani lo vorrebbe di nuovo come presidente nonostante le indagini e le possibili condanne. Trump ha avuto meno voti dei candidati democratici sia nel 2016 che nel 2020 ma conta sull’impopolarità di Joe Biden, che una maggioranza di elettori democratici preferirebbe sostituire con un candidato più giovane (Biden avrebbe 86 anni alla fine di un eventuale secondo mandato). La compattezza della base repubblicana e le distorsioni del sistema elettorale americano potrebbero permettere a Trump ritornare alla Casa Bianca nel 2024.

L’annuncio dell’altroieri toglierà ossigeno ai concorrenti nelle primarie del partito repubblicano? Nessuno degli sfidanti ha il carisma, la sfrontatezza, i mezzi finanziari, la notorietà di Trump. Il più simile a lui dal punto di vista politico, il governatore della Florida Ron DeSantis, appare come un impiegato del catasto incattivito, l’ex vicepresidente Mike Pence è detestato da gran parte degli elettori repubblicani per aver “tradito”, impedendo al golpe del 6 gennaio 2021 di andare in porto. Tutto ciò che dice e fa il palazzinaro di New York è parte di uno spettacolo che può tornare ad affascinare le folle come nel 2016 e nel 2020, una performance politica che non ha eguali.

Tra i milionari, preoccupati per il caos politico in cui il Paese sta precipitando, ci sono grandi manovre in corso per trovare delle alternative: ovvero un candidato che difenda i loro portafogli senza rischiare la galera, come Trump, o l’Alzheimer (come Biden). Si parla molto di lanciare un candidato indipendente, che potrebbe essere un senatore democratico centrista come Joe Manchin del West Virginia, o qualcuno con un profilo politico simile. La solidità dell’oligopolio democratici/repubblicani rende però debole questa ipotesi.

Un’alternativa potrebbe essere il lancio di una candidatura “forte” nelle primarie democratiche, un miliardario come Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JPMorgan Chase, la megabanca nata nel 2000, la più grande degli Stati Uniti. Per il momento Dimon non si sbilancia, forse memore dell’avventura di Michael Bloomberg, l’altro miliardario (e sindaco di New York) che partecipò alle primarie democratiche del 2020 spendendo centinaia di milioni di dollari in propaganda elettorale ottenendo solo di coprirsi di ridicolo.

La strada sembra quindi segnata: un nuovo match Biden-Trump nel novembre 2024, sullo sfondo di una guerra civile latente. O peggio.