Accade talvolta che la storia restituisca attualità a libri e documenti che dopo aver segnato un’epoca finiscono per fare da monito a un’altra. È questo il caso dei due discorsi di Milan Kundera raccolti sotto il titolo Un Occidente prigioniero che, riapparsi da Gallimard nel 2021, sono stati tradotti da Adelphi (l’altro con il titolo La letteratura e le piccole nazioni, premesse di Jacques Rupnik e Pierre Nora, traduzione di Giorgio Pinotti, Piccola Biblioteca Adelphi, pp. 85, euro 12,00) giusto in tempo per offrire chiavi di lettura al trauma del ritorno della guerra nell’Europa centro-orientale. Per quanto non priva di ragioni, questa semplificazione non rende tuttavia giustizia alla profondità del ragionamento di Kundera, il cui significato trascende i limiti della pura storicità per comporre una forma universale della Mitteleuropa.

I due discorsi ora ripubblicati affondano le loro radici l’uno nella situazione antecedente la Primavera di Praga, l’altro negli anni del progressivo indebolirsi del sistema sovietico, ma il loro orizzonte è ben più ampio e in fondo, come tutta l’opera di Kundera, hanno per riferimento l’intera vicenda novecentesca dell’Europa centrale e balcanica. Ma quel che più conta è che la lente insostituibile per la rappresentazione di quel mondo e di quei tempi è la letteratura; è la storia delle sue morti e rinascite, che accompagnano le alterne vicende del popolo ceco: «semi-estinto» in epoca absburgica, scrive Kundera, e poi risuscitato proprio dai suoi scrittori.

Di fronte alla Russia
Non è solo l’occasione del discorso (il congresso degli scrittori praghese) a determinare questa posizione, poiché – come sa chiunque abbia letto anche solo una pagina di Kundera – la questione della letteratura è al centro di tutta la sua opera. Dunque è necessario chiedersi: cosa «mostra» la letteratura che resta invece precluso alle altre dimensioni della vita sociale? La risposta di Kundera è che la letteratura consente di vedere il tempo: il passato della sua vicina estinzione e le sue possibilità future. E poiché vede il tempo può commisurare alla storia il valore della propria esistenza. Scrive Kundera che le «peregrinazioni» del popolo ceco «dalla democrazia al giogo fascista allo stalinismo e al socialismo rispecchiano tutti i principali elementi della storia del XX secolo». Questi elementi mettono sotto gli occhi di chiunque i rischi legati al venir meno di una cultura nazionale capace di affermarsi nel contesto europeo poiché – scrive ancora Kundera – la cultura serve «più di un tempo a giustificare e preservare l’identità nazionale».

Il pensiero sotteso a queste frasi è che il potenziale d’individuazione delle «piccole nazioni» non può essere determinato dal successo economico o politico, poiché il loro destino in questo campo è di essere prive di scelta. Il campo di tensione che stringe l’Europa centro-orientale nella morsa di due grandi blocchi a cui è consentita ogni decisione sostanzia il destino storico che obbliga le sue identità nazionali a confidare nel potere della cultura di far emergere la loro specificità e diversità. E poiché nulla rende evidente la diversità quanto la lingua e le sue espressioni più significative, è inevitabile che la letteratura – che non ha bisogno di alcun potere economico o politico – rivesta un ruolo insostituibile nella formazione di un’autocoscienza collettiva.

Quando Kundera espone queste riflessioni, scrive Jacques Rupnik nella sua essenziale introduzione al testo del discorso, il settimanale «Literární noviny» si tira in duecentocinquantamila copie che vanno vendute nell’arco di un solo giorno. La letteratura è dunque al centro del discorso pubblico ed è questa la prospettiva in cui inquadrare il ragionamento di Kundera. Ma lo scenario cambia completamente quasi vent’anni dopo, quando Kundera, ormai in Francia, comincia a fare i conti con l’Occidente e, dunque, con il mondo delle libere decisioni.

L’opinione di Kundera sulla letteratura e la sua funzione non è mutata minimamente: «L’identità di un popolo o di una civiltà si riflette e si riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che solitamente definiamo “cultura”». Ma l’Occidente ha perduto il contatto con questa funzione ed è, dunque, minacciato dalla scomparsa di quanto gli è più proprio. È a questo punto che l’argomentazione dello scrittore tocca i temi che più attirano l’attenzione degli osservatori odierni: vale a dire il destino dell’Europa centrale al cospetto del potere dell’altro lato del continente, dell’oriente Russo e della sua parabola storica. Non c’è dubbio che questa parte del discorso sia costellata da osservazioni acutissime e, per giunta, scandita da sentenze scintillanti. Laddove Kundera descrive l’effetto fatale della sottomissione dell’oriente europeo al potere sovietico scrive: «L’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea: il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta: il minimo di diversità nel massimo spazio?».

Una sintesi più compiuta è impensabile. E quando Kundera affronta la questione del rapporto fra la Russia, l’Occidente e la storia delle piccole nazioni mitteleuropee scrive: «Remote e antiche radici ci uniscono alla Russia. Lungo tutto il XIX secolo, del resto, la Russia si è avvicinata all’Europa. Nessuno sfuggì alla forza del grande romanzo russo, che resta inseparabile dalla comune cultura europea. Sì, tutto questo è vero e l’alleanza culturale delle due Europe rimarrà un grande ricordo. Ma è altrettanto vero che il comunismo rinfocolò vigorosamente le vecchie ossessioni antioccidentali della Russia, strappandola bruscamente alla storia occidentale».

Non si potrebbe dire meglio. È dunque ovvio che oggi, quando l’Occidente si trova nuovamente confrontato con la grande eccezione russa, la formidabile capacità d’analisi di Kundera emerga evidente. Ma il discorso di Kundera resta centrato, in profondità, sul potere della cultura, e della letteratura in particolare, di dare forma a una specifica identità nazionale. Un’identità, magari, cosmopolita, «ultraeuropea», ma incontrovertibilmente definita dalle testimonianze della sua arte. Quest’ultima, questo potentissimo strumento a disposizione di tutti, è ciò che unisce e tiene in vita le «piccole nazioni» così come le grandi realtà continentali: ma solo nelle precarie realtà dei paesi centroeuropei il suo potere appare evidente. Perché le piccole nazioni, scrive ancora Kundera, sono quelle che in qualsiasi momento possono veder messa in questione la loro esistenza e possono sparire; sono quelle che nutrono «una specifica visione del mondo, basata sulla diffidenza nei confronti della Storia».

L’Occidente privo di coscienza
Per queste nazioni la cultura è sempre stata ed è vitale. Ma laddove il potere economico e politico ha preso il sopravvento dell’interesse generale, laddove la libertà e l’identità non sono minacciate, la consapevolezza di questa basilare funzione della cultura è venuta meno e ciò che fu una «catastrofe» per la Cecoslovacchia dopo l’occupazione russa è a Parigi una realtà «banale e insignificante, a stento visibile, come un non-evento». Ma il grande Occidente che ha perduto il contatto col senso della sua cultura non è altro che una piccola nazione inconsapevole dei rischi che la perdita del rapporto con la propria letteratura comporta. Il vero pericolo è quello di diventare indifferenti a sé stessi, di perdere, insieme alla cultura, la misura di ciò che si è rispetto agli altri e a ciò che potrebbe costituire il motivo della propria sparizione. In fondo l’occidente europeo non è altro che una piccola nazione ormai priva della coscienza di esserlo.